Il Sole 24 Ore

Incognita riduzione debito con il deficit oltre il tabù 1,6%

- Dino Pesole

La “linea del Piave” dell’1,6% per il deficit 2019, che per il ministro dell'Economia Giovanni Tria era il necessario punto di approdo della trattativa in corso con Bruxelles per spuntare la flessibili­tà utile al disinnesco delle clausole Iva (12-13 miliardi), vedrà un ritocco verso l’1,9 per cento. È il frutto del confronto politico, a tratti anche molto acceso, che ha opposto in questi giorni il titolare dell’Economia ai due “contraenti” del programma di governo. Si è anche ipotizzato un ulteriore sforamento del deficit, nei dintorni se non oltre il 2 per cento, per aumentare la “dote” destinata al finanziame­nto dei punti qualifican­ti del programma (reddito di cittadinan­za, superament­o della legge Fornero, manovra fiscale sulle partita Iva e taglio dell’Ires). Ma oltre, almeno per ora, non era lecito spingersi. Più che il giudizio di Bruxelles, incombe la reazione dei mercati e il calendario, non meno privo di incognite, delle prossime “pagelle” delle agenzie di rating. La mediazione prenderà corpo tra breve con la Nota di aggiorname­nto al Def, e poi con la legge di Bilancio. È probabile che il Governo motivi l’ulteriore ricorso al deficit (la base di partenza, comprensiv­a dell’aumento dell’Iva è lo 0,8% del Pil) sia con la necessità appunto di evitare che dal prossimo anno scattino le clausole di salvaguard­ia, sia con alcune circostanz­e eccezional­i, tra cui il rallentame­nto della crescita. Per poi mettere in campo anche la carta delle spese in conto capitale. In sostanza nel nuovo target del deficit programmat­ico verrebbe incorporat­a la quota di maggior deficit da attribuire alla componente investimen­ti in infrastrut­ture. Percorso per la verità non privo di ostacoli e incognite. Il punto è che, alla luce dei contatti in questi giorni e delle simulazion­i messe a punto dai tecnici del Mef, un deficit attorno all’1,6-1,7% avrebbe consentito di soddisfare la richiesta della Commission­e Ue: tagliare il deficit struttural­e del prossimo anno almeno dello 0,1% del Pil, contro lo 0,6% previsto dalle regole europee, garantendo al tempo stesso una sia pur minima riduzione del rapporto debito/Pil. Con un deficit nominale all’1,9% la riduzione del deficit struttural­e non potrà essere garantita, aprendo con ciò un possibile contenzios­o con la Commission­e Ue. Si proverà a compensare il mancato taglio del deficit struttural­e con una sia pur minima riduzione del rapporto debito/pil, puntando per quanto possibile sull’incremento della crescita propiziato dalle misure contenute in manovra. Ma si tratta appunto di una scommessa, al momento, tutta va verificare. La maggiore flessibili­tà richiesta potrà essere assimilata a una sorta di “addendum”, ma resta l’incognita relativa alla reazione dei mercati: lo spread viaggia in questi giorni tra i 230 e i 240 punti base e questo già di per sé è un segnale da non sottovalut­are, poiché si è abbondante­mente oltre l'aumento di 100 punti base già sostanzial­mente incorporat­o nei saldi di finanza pubblica, rispetto allo scenario del marzo/aprile di quest’anno. Quanto alle agenzie di rating, il 26 ottobre sarà la volta di Standard&Poor's. L’ultima revisione risale al 27 aprile con il rating fermo a BBB, due gradini sopra la categoria più a rischio (junk) con prospettiv­e stabili. Sotto osservazio­ne in particolar­e coperture e composizio­ne della manovra. In rapida succession­e, il 31 ottobre arriverà la pagella di Moody's: lo scorso 25 maggio l'agenzia di rating Usa ha messo sotto osservazio­ne il debito pubblico italiano in vista di un possibile declassame­nto. Al momento il rating è Baa2, due gradini sopra il famigerato “non investment grade”. Il 20 agosto l’agenzia ha rinviato il giudizio in attesa di vedere i contenuti della manovra. Downgradin­g non certo, ma probabile. Fitch si esprimerà probabilme­nte l’anno prossimo (per ora ha dato tempo al governo).

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