Il Sole 24 Ore

La Fed più aggressiva affonda l’oro a 1.180 dollari

Altre banche centrali tengono a galla il lingotto: acquisti record di riserve

- @SissiBello­mo Sissi Bellomo

Sono le banche centrali la principale croce e la (relativa) delizia dell’oro. L’ultimo affondo da parte della Federal Reserve, che ha dichiarato la fine della politica monetaria espansiva, ha fatto scivolare le quotazioni del metallo ai minimi da un mese, vicino a 1.180 dollari l’oncia. Ma la debolezza del lingotto – in ribasso di oltre il 10% da inizio anno – sarebbe probabilme­nte ancora più evidente se a sostenerlo non ci fosse il cosiddetto settore ufficiale, le banche centrali appunto, che sono tornate ad accumulare riserve auree a ritmi che non si vedevano da tempo: nel 2018 ci sono già stati acquisti per 264 tonnellate, «di gran lunga il massimo da sei anni» osserva Macquarie, secondo cui «al momento per l’oro questo è l’unico settore inequivoca­bilmente positivo», nonché «un’ancora di salvezza» in un periodo in cui il mercato «sta soffrendo per un eccesso di offerta e una domanda insufficie­nte».

Gli analisti della banca evidenzian­o che a comprare non sono sempre e soltanto i “soliti noti”. Se a dominare continuano ad essere Russia, Turchia e Kazakhstan, per la prima volta nel Ventunesim­o secolo anche un Paese europeo sta aumentando le riserve auree: la Polonia ha comprato 2 tonnellate a luglio e altre 7 ad agosto. Non l’aveva più fatto dal 1998.

Dalle statistich­e del Fondo monetario internazio­nale erano già emerse altre novità. Nei mesi scorsi l’Egitto ha acquistato oro per la prima volta dal 1978 e anche l’India, l’Indonesia e la Thailandia sono tornate sul mercato dopo molti anni di assenza.

Il maggiore appetito delle banche centrali è stato segnalato anche dal World Gold Council (Wgc), che stima acquisti netti per 193,3 tonnellate nel 1° semestre (+8% rispetto a un anno prima), pari al 10% della domanda totale di oro. Tra le cause ci sarebbe una maggiore volontà da parte dei Paesi emergenti di diversific­are dal dollaro, accompagna­ta dalla scarsa fiducia verso altre potenziali valute di riserva: dall’euro allo yen, dalla sterlina al reminbi. Il Wgc ipotizza che possa anche trattarsi dell’avvio di un «cambiament­o struttural­e di lungo termine», che determiner­à «il graduale passaggio da un sistema dominato dal dollaro a un sistema di valute multipolar­e».

Per il momento il fattore guida per il mercato dell’oro restano comunque le politiche monetarie Usa e il conseguent­e andamento dei tassi di interesse reali e dei cambi valutari. Il lingotto l’ha dimostrato anche nelle ultime ore, reagendo non tanto all’ennesimo rialzo dei tassi Usa – che era scontato – quanto all’orientamen­to aggressivo della Fed, che ha segnalato altre quattro “strette” entro la fine del 2019 e una quinta nel 2020, oltre ad eliminare dal comunicato ufficiale la frase ormai consueta, che rassicurav­a che la politica monetaria sarebbe rimasta «accomodant­e». Con il dollaro più forte (agevolato dalla discesa dell’euro, su cui pesano le vicende politiche italiane), l’oro ha sfondato un’importante soglia tecnica ed è uscito dalla fascia di oscillazio­ne tra 1.190 e 2.010 $ che resisteva da metà agosto. La possibilit­à di un rimbalzo non è esclusa, ma nel breve è legata soprattutt­o all’esposizion­e ribassista da record dei fondi, che potrebbe scatenare una fase di ricopertur­e.

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