I DAZI DI TRUMP, L’ATTENDISMO DI PECHINO
Nuova sberla di Trump al colosso cinese, che vanta un surplus commerciale con gli Usa di 376 miliardi di dollari. La prima, simbolica, tornata di dazi Usa-Cina del 2018 (tariffe da ambo i lati per 50 miliardi) non si è ripercossa sulla crescita delle due grandi economie, ma la situazione potrebbe mutare. Trump punta a mantenere alta la pressione ed ha rilanciato con altre tariffe su circa 200 miliardi di importazioni.
La rappresaglia cinese è apparsa poco incisiva: sono stati colpiti “solo” 60 miliardi di beni Usa, mentre sono rimasti aperti i canali diplomatici. Pechino ha infatti quasi esaurito le contromosse immediate, dato che le importazioni dagli Usa ammontano a solo 130 miliardi (prevalentemente agroalimentare e materie prime).
La spavalda dichiarazione di Trump sulla «facilità di vincere le guerre commerciali» pare avere un senso. Un Paese che ha un deficit commerciale maggiore ha più munizioni da spendere in uno scontro tariffario puro, anche se la teoria economica ci ricorda che complessivamente c’è una perdita secca di benessere.
Le tariffe non sarebbero l’unica arma a disposizione del governo
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La strategia migliore per la Cina? Lasciare che i dazi alimentino l’inflazione americana
cinese. Il dragone potrebbe lasciar deprezzare lo yuan sul dollaro: come già successo, anche piccoli movimenti al ribasso della valuta cinese darebbero una spinta alle esportazioni e potrebbero de facto annullare gli aumenti di prezzo. Tuttavia il Presidente Xi Jinping ha lasciato intendere di non avere intenzione di “allargare” il conflitto attraverso svalutazioni competitive.
Ci sono dei motivi fondati a favore di uno yuan stabile: da quando nel 2015 la divisa cinese è stata ammessa tra le valute di riserva del Fondo monetario internazionale (Fmi), il suo utilizzo è esploso ad oltre il 2% delle transazioni globali. Sono stati stretti accordi con 33 banche centrali mentre 13 piazze finanziarie globali (tra cui Londra e Francoforte) hanno attivato un mercato in yuan. Ciò consente alle imprese cinesi di operare sui mercati annullando il rischio di cambio e riducendo i costi di funding. L’internazionalizzazione dello yuan ha contribuito all’ulteriore spiazzamento della concorrenza estera. Per godere di questi privilegi tuttavia è necessario che lo Yuan resti una valuta poco volatile.
D’altronde l’impatto dei dazi di Trump nella peggiore ipotesi (tariffe al 25% da gennaio 2019 su ulteriori 250 miliardi) potrà rallentare la crescita del Pil al massimo dello 0,9% annuo. Un effetto modesto, che il governo punta a controbilanciare attraverso politiche fiscali e monetarie di stimolo della domanda interna.
La strategia migliore per la Cina potrebbe essere passiva: lasciare che i dazi si trasformino in un aumento dei prezzi per il consumatore americano. In un’economia a pieno impiego come gli Usa è infatti improbabile che dazi sull’import possano stimolare la manifattura locale, su prodotti (tessile, elettronica) dove il vantaggio competitivo cinese resta incolmabile. Il consumatore americano pagherà prezzi più alti: secondo Goldman Sachs l’inflazione Usa crescerà mediamente dello +0,3% annuo. Si registrerebbe un +0,8% solo nel caso peggiore.
Basterà lo spauracchio inflazione per frenare Trump e favorire una tregua commerciale, auspicata anche da una parte dell’amministrazione Usa? Non è detto: aumenti di prezzi su prodotti acquistati saltuariamente non sono percepiti dal consumatore come quelli su beni essenziali, ad esempio la benzina. In questa fase di forte crescita dei redditi reali i consumatori potrebbero ignorare gli aumenti senza cambiare abitudini.
Insomma se l’esito della trade war è incerto, Trump mantiene il vantaggio strategico dell’iniziativa.
Economista á@MarcelloMinenna