Il Sole 24 Ore

I DAZI DI TRUMP, L’ATTENDISMO DI PECHINO

- Di Marcello Minenna

Nuova sberla di Trump al colosso cinese, che vanta un surplus commercial­e con gli Usa di 376 miliardi di dollari. La prima, simbolica, tornata di dazi Usa-Cina del 2018 (tariffe da ambo i lati per 50 miliardi) non si è ripercossa sulla crescita delle due grandi economie, ma la situazione potrebbe mutare. Trump punta a mantenere alta la pressione ed ha rilanciato con altre tariffe su circa 200 miliardi di importazio­ni.

La rappresagl­ia cinese è apparsa poco incisiva: sono stati colpiti “solo” 60 miliardi di beni Usa, mentre sono rimasti aperti i canali diplomatic­i. Pechino ha infatti quasi esaurito le contromoss­e immediate, dato che le importazio­ni dagli Usa ammontano a solo 130 miliardi (prevalente­mente agroalimen­tare e materie prime).

La spavalda dichiarazi­one di Trump sulla «facilità di vincere le guerre commercial­i» pare avere un senso. Un Paese che ha un deficit commercial­e maggiore ha più munizioni da spendere in uno scontro tariffario puro, anche se la teoria economica ci ricorda che complessiv­amente c’è una perdita secca di benessere.

Le tariffe non sarebbero l’unica arma a disposizio­ne del governo

‘‘

La strategia migliore per la Cina? Lasciare che i dazi alimentino l’inflazione americana

cinese. Il dragone potrebbe lasciar deprezzare lo yuan sul dollaro: come già successo, anche piccoli movimenti al ribasso della valuta cinese darebbero una spinta alle esportazio­ni e potrebbero de facto annullare gli aumenti di prezzo. Tuttavia il Presidente Xi Jinping ha lasciato intendere di non avere intenzione di “allargare” il conflitto attraverso svalutazio­ni competitiv­e.

Ci sono dei motivi fondati a favore di uno yuan stabile: da quando nel 2015 la divisa cinese è stata ammessa tra le valute di riserva del Fondo monetario internazio­nale (Fmi), il suo utilizzo è esploso ad oltre il 2% delle transazion­i globali. Sono stati stretti accordi con 33 banche centrali mentre 13 piazze finanziari­e globali (tra cui Londra e Francofort­e) hanno attivato un mercato in yuan. Ciò consente alle imprese cinesi di operare sui mercati annullando il rischio di cambio e riducendo i costi di funding. L’internazio­nalizzazio­ne dello yuan ha contribuit­o all’ulteriore spiazzamen­to della concorrenz­a estera. Per godere di questi privilegi tuttavia è necessario che lo Yuan resti una valuta poco volatile.

D’altronde l’impatto dei dazi di Trump nella peggiore ipotesi (tariffe al 25% da gennaio 2019 su ulteriori 250 miliardi) potrà rallentare la crescita del Pil al massimo dello 0,9% annuo. Un effetto modesto, che il governo punta a controbila­nciare attraverso politiche fiscali e monetarie di stimolo della domanda interna.

La strategia migliore per la Cina potrebbe essere passiva: lasciare che i dazi si trasformin­o in un aumento dei prezzi per il consumator­e americano. In un’economia a pieno impiego come gli Usa è infatti improbabil­e che dazi sull’import possano stimolare la manifattur­a locale, su prodotti (tessile, elettronic­a) dove il vantaggio competitiv­o cinese resta incolmabil­e. Il consumator­e americano pagherà prezzi più alti: secondo Goldman Sachs l’inflazione Usa crescerà mediamente dello +0,3% annuo. Si registrere­bbe un +0,8% solo nel caso peggiore.

Basterà lo spauracchi­o inflazione per frenare Trump e favorire una tregua commercial­e, auspicata anche da una parte dell’amministra­zione Usa? Non è detto: aumenti di prezzi su prodotti acquistati saltuariam­ente non sono percepiti dal consumator­e come quelli su beni essenziali, ad esempio la benzina. In questa fase di forte crescita dei redditi reali i consumator­i potrebbero ignorare gli aumenti senza cambiare abitudini.

Insomma se l’esito della trade war è incerto, Trump mantiene il vantaggio strategico dell’iniziativa.

Economista á@MarcelloMi­nenna

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy