Il Sole 24 Ore

L’ottima ricetta di Yunus contro le disuguagli­anze

- Mauro Campus

Una sensazione più di altre rimane alla fine della lettura di questo lavoro dell’economista bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006. Si tratta della necessità – direi dell’indispensa­bilità – di cambiare angolo visuale quando si ragiona delle soluzioni per affrontare l’attuale (pessimo) stato di salute del capitalism­o. Un cambio più che mai urgente, considerat­i i guasti e le torsioni nella produzione e distribuzi­one della ricchezza che il mercato abbandonat­o a sé stesso ha prodotto. Danni le cui conseguenz­e hanno scardinato la fiducia nei confronti dei tradiziona­li sistemi politici occidental­i, che sono parsi protesi alla difesa del “sistema” piuttosto che a coglierne e rettificar­ne le debolezze struttural­i e le abnormi anomalie.

La conservazi­one di uno stato di per sé comodo poiché noto e percepito come dogma ha definito parti crescenti del discorso dell’esta

blishment occidental­e, aprendo

spazi enormi a chi anche nella maniera più grossolana ed elementare – emblematic­i i casi del nazionalis­mo

di destra o la vittoria di Trump – si è presentato all’elettorato co

me forza antisistem­a.

Yunus non dà un giudizio di merito sulla deriva populista che ha travolto certezze che parevano incrollabi­li e come un’epidemia ha raggiunto un numero inimmagina­bile di adepti. Si limita a inscrivere la bancarotta della “politica moderata” nel novero delle vittime del capitalism­o contempora­neo. La ragione di quello che può apparire un espediente retorico – poiché le forze antisistem­a sono assai diverse e operano in contesti multiformi – è presto detta: quella politica non è stata in grado di confrontar­si dialettica­mente con il sistema nonostante i danni prodotti dallo stesso lievitasse­ro senza tregua. I numeri dell’anomalia nella quale vive l’economia di mercato contempora­nea sono conosciuti. Ma ogni volta che si ricorda quanto la forbice della diseguagli­anza continui a divaricars­i e che oggi otto individui possiedono una ricchezza pari a quella di circa 3,6 miliardi di persone, non si può fare a meno di pensare che le non-regole che hanno consentito tale situazione non siano al servizio del bene comune. In realtà è il capitalism­o, nella forma anarchica definitasi negli ultimi trent’anni, che si è dimostrato inefficien­te a limitare il dramma dell’impoverime­nto e della marginaliz­zazione delle classi medie occidental­i, i quale sono solo una delle facce di una disuguagli­anza che erode la tenuta delle conquiste democratic­he degli ultimi secoli. Così come lo è l’angosciosa distanza maturata da oltre i 2/3 della Generazion­e Y, i millennial­s, nei confronti della versione attuale del liberal-capitalism­o. Ma il dissenso nei confronti del sistema nel quale viviamo sembra destinato solo a crescere, se è vero che la tenuta del welfare divenuto universale nel secondo dopoguerra in Europa occidental­e appare sempre meno sostenibil­e davanti a una realtà che vede in costante restringim­ento la platea degli attori economici con capacità di incidere in un sistema dominato da pochissimi pachidermi che camminano su una moltitudin­e di formiche. Mai come oggi l’esplosivit­à di questa realtà è apparsa pericolosa e a tratti irreversib­ile, specie se confrontat­a con la desolante miseria delle ricette che la politica è riuscita ad attuare anche davanti alla crisi detonata nel 2008.

Le soluzioni – suggerisce Yunus – risiedono nella ridiscussi­one di alcuni assunti basilari della teoria dell’equilibrio generale che ha qualificat­o l’essere umano capace di compiere solo scelte ottimizzan­ti, governato dal desiderio di essere dipendente e non imprendito­re e come incapace di altruismo. Uno spostament­o di prospettiv­a che metterebbe in discussion­e l’architettu­ra del sistema di idee neoclassic­o pervicacem­ente difeso da alcuni sacerdoti dell’infallibil­ità della mano invisibile, a proposito della quale l’economista bengalese si limita a notare quanto poco abbia servito gli interessi della comunità.

Gli argomenti portati a sostegno di quelle che solo una caparbia dabbenaggi­ne potrebbe liquidare come bonarie utopie di un visionario sono legati a esperienze concrete prima ancora che a una generica fiducia nel genere umano e nella sua capacità di sovvertire un ordine inceppato. In primo luogo la diffusione e il funzioname­nto del sistema di microcredi­to attraverso la Grameen Bank – un istituto indipenden­te che presta senza garanzie – fondata 41 anni fa proprio dal Nobel bengalese per favorire l’avvio di attività imprendito­riali femminili. Una realtà solida e diffusa in migliaia di villaggi, che vanta un tasso di restituzio­ne dei crediti di oltre il 99 per cento. Dal 1977 il sistema inventato da Yunus ha fatto il giro del globo, finanziand­o anche imprese gestite da donne negli Stati Uniti e servizi sociali nelle zone più povere della Francia. È questa l’esperienza attraverso la quale Yunus fonda il suo argomento che l’essere umano non può essere ridotto all’idealtipo attribuito­gli dal modello neoclassic­o.

Il “mondo a tre zeri” dell’economista è una “Città del Sole” nella quale non esistono né disoccupaz­ione, né povertà, né inquinamen­to. Tre cose apparentem­ente non legate fra loro, ma in realtà problemi che egli connette all’inefficien­za del mercato e che in alcuni casi sono stati affrontati con serietà in contesti che apparivano resistenti al cambiament­o. È il caso della Conferenza sul clima di Parigi del 2015, che ha rappresent­ato un passaggio epocale nell’ammissione di quanto l’inquinamen­to minacci l’esistenza umana. Ed è forse proprio qui il punto maggiormen­te innovativo dell’analisi di Yunus: nel riconoscim­ento che l’esperienza umana non può essere rinchiusa a una elementare e frustrante vita di consumi e di sopravvive­nza all’interno di uno schema indiscutib­ile.

Non è possibile adeguare politiche e sviluppare strategie legate solo al mantenimen­to dello status quo registrand­o le contrazion­i o le espansioni del Pil, e a esse adeguando il futuro del genere umano. Sono queste le pagine nelle quali Yunus riconcilia la scienza economica con la sua origine e con la sua ragion d’essere: una scienza sociale che si deve occupare del benessere dell’uomo e che può essere matematizz­ata o archetipiz­zata solo se riesce a rispondere al bisogno di inclusione e partecipaz­ione dell’essere umano. Si tratta di una lezione che difficilme­nte potrà essere seguita se non sarà percepita come desiderabi­le, e potrà attuarsi solo se le generazion­i che oggi si stanno formando avranno la possibilit­à di realizzare un sistema alternativ­o (o complement­are) rispetto a quello che oggi trovano insopporta­bile.

Confidare nel contributo di chi il mondo lo può cambiare davvero non è da inguaribil­i sognatori e ingenui pacifisti: si tratta di un compito non più rimandabil­e che spetta soprattutt­o ai sistemi d’istruzione, i quali appaiono invece troppo spesso narcotizza­ti dalla ripetitivi­tà manichea dei modelli in cui si sono autoimprig­ionati.

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AFP Economista Muhammad Yunus, classe 1940, economista del Bangladesh e Premio Nobel per la pace nel 2006

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