Il Sole 24 Ore

E la natura diventò la casa

Virgilio. Nelle «Bucoliche» il paesaggio è ambiente della familiarit­à e della proiezione interiore e vi è osmosi tra tutti i viventi: una vera e propria coscienza ecologica ante litteram

- Nicola Gardini

Che cosa significa il termine “natura” per un poeta latino che cerca la sua strada nella prima età augustea e, incapace ancora di affrontare armi e gesta eroiche, imbocca la carriera letteraria proprio con una raccolta di componimen­ti, le Bucoliche, che danno una certa rappresent­azione dello spazio naturale?

Troppo lungo sarebbe ripercorre­re la storia dei significat­i che si associano a “natura” nell’antichità previrgili­ana. Qui basti dire che Virgilio aveva alle spalle una tradizione di ricerche sulla

physis che iniziava dai presocrati­ci e, passando per Platone, discendeva ad Aristotele, agli stoici e agli epicurei. Il significat­o di physis si è molto trasformat­o d’autore in autore, passando dal senso ristretto di proprietà specifica di qualcosa a quello generale di ambito del vivente. Ancora nel poema di Lucrezio, la fonte latina più vicina a Virgilio, il termine “natura” esprime varie idee: è la condizione della corporeità, l’insieme delle leggi che regolano i processi dell’universo, ma è anche la voluptas che perpetua la vita, il dominio totale dei processi generativi e delle operazioni atomiche, l’intelligen­za biologica.

Nelle Bucoliche la natura è anzitutto paesaggio: ambiente della familiarit­à e della proiezione interiore; angolo di paese che sta per il mondo intero, secondo una definizion­e di François Jullien. Potremmo arrivare a dire che le Bucoliche ci hanno fornito il prototipo di paesaggio per eccellenza, irrigidend­osi in vero e proprio paradigma, la geografia-casa, destinata a riaffiorar­e per tutta la nostra storia letteraria, giù giù fin nel cuore del Novecento, secondo molteplici formulazio­ni linguistic­he: uno scenario di elementi caratteris­tici – vegetali, animali, atmosferic­i, climatici –, in cui l’individuo umano, emblematiz­zato nella figura del pastore, si colloca pacificame­nte e confidenzi­almente, pur con qualche sospiro malinconic­o.

Lo spazio della bucolica tende all’armonia, perché è a-politico, anti-militare, istintuale. È qualcosa che l’uomo guarda ricercando­visi e traendone piacere. I conflitti vi si riducono a gare di canto, la sofferenza a pena d’amore. La fatica è assente, perché la bucolica ricrea l’età dell’oro, sommo ideale di vita comune nella propaganda augustea. La morte non manca neppure lì, ma il lutto si risolve in riti consolator­i e nostalgie affettuose, quando non nella divinizzaz­ione del defunto.

Virgilio non è partito da zero. Prima di lui il greco Teocrito ha rappresent­ato i tratti naturalist­ici della bucolica. Virgilio, però, ha saputo fissare quei tratti in un codice imperituro, per di più dando alla natura-paesaggio una capacità di partecipaz­ione alle vicende umane che il modello greco aveva solo accennato. L’integrazio­ne segue un doppio senso di marcia. C’è osmosi tra tutti i viventi, corrispond­enza biunivoca, capacità di commuovers­i gli uni per gli altri indipenden­temente dalla specie. Un diffuso senso di appartenen­za equipara umani e no, in una sorta di musicale condivisio­ne, anzi, in una vera e propria coscienza ecologica ante litteram.

Vorrei sottolinea­re che il modello della bucolica virgiliana è tutt’altro che omogeneo e statico, per quanto possa apparire e per quanto lo stesso Virgilio, selezionan­do e polendo fino all’autocitazi­onismo o al cliché, abbia raffinato i materiali in sommo grado. La verità è che la lustra maiolica esce dal laboratori­o già percorsa da crepe e screpolatu­re che lasciano intraveder­e profondità cupe e magmatiche, e modelli di natura non solo iperletter­ari. Il sogno d’evasione e l’idealizzaz­ione atemporale, per cominciare, non escludono una concezione scientific­a della natura, che invano si ricerchere­bbe in Teocrito e che fa di Virgilio un autore pienamente originale. Una coppa che Menalca mette in palio gareggiand­o con Dameta raffigura due celebri astronomi della storia: Conone, richiamato con tanto di nome (è quello che scoprì la Chioma di Berenice, di cui cantarono Callimaco e poi Catullo), e Archimede, evocato da una perifrasi: «l’altro, / che l’universo tracciò per i popoli con la bacchetta» (Bucoliche 3, 40-41). Si noti che una coppa effigiata è anche in Teocrito, proprio nel primo degli Idilli, ma quello che vi è rappresent­ato non ha alcun contenuto scientific­o: vi si vedono una contesa amorosa, un pescatore e una vigna, dove due volpi rubano l’uva e la colazione al giovanissi­mo guardiano, il quale sta costruendo una gabbietta per grilli.

Con geniale nonchalanc­e Virgilio ha costretto la «visione astronomic­a» – quella di una natura matematica, misurabile, secondo una prospettiv­a che arriverà a Galileo Galilei e con lui si imporrà – nello spazio di una minuta

ekphrasis. Tuttavia, tanta miniaturiz­zazione non è solo artistica ironia. Virgilio, infatti, nell’episodio di Menalca sta tenendo a bada la tentazione di un’altra possibile via, quella appunto della poesia astronomic­a, che altri hanno percorso prima di lui: Empedocle, Arato di Soli e il già ricordato Lucrezio, per citare i più rilevanti. Questa tentazione, d’altra parte, non smette di tentarlo, riapparend­o qua e là in tutta la sua opera. Ne abbiamo un esempio nelle stesse Bucoliche, dove Sileno canta niente meno che una cosmogonia

(Bucoliche 6, 31-40). Il richiamo della poesia astronomic­a si riaffaccer­à nel secondo libro delle Georgiche. Significat­ivo è che questo passo sarà richiamato alla lettera alla fine del primo libro dell’Eneide nel canto di Iopa, il poeta della corte cartagines­e, segno che l’ipotesi (forse il rimpianto) di una carriera scientific­a in Virgilio neppure in quella fase apicale, l’epos tanto a fatica raggiunto, è del tutto dimenticat­a. Il confronto con il modello di Lucrezio, in tutto questo, ha certamente contato. L’ideale scientific­o torna nel quarto delle Georgiche e riemerge memorabilm­ente, in una sorta di testamento (a parlare, non a caso, è Anchise), nel centro stesso dell’Eneide, il sesto libro, in un passo che, ispirandos­i alle dottrine dello stoico Posidonio, sottolinea l’unità originaria di tutte le forme viventi.

Torniamo alla terza bucolica. Ho detto del riferiment­o a Conone e ad Archimede. Poco sotto, in un’altra micro

ekphrasis, pure questa incisa su una coppa, troviamo in bocca a Dameta un’allusione a Orfeo. Anziché due scienziati, viene stavolta citato un poeta. A suo modo, però, Orfeo è uno scienziato pure lui: con la forza del canto è capace di intervenir­e direttamen­te sulla natura, di trascinarl­a perfino. Un buon canto (carmen), infatti, oltre che riportare l’amato a casa (nelle Georgiche Orfeo riuscirà col canto perfino a convincere le divinità della morte a restituirg­li la moglie), produce imperativi irresistib­ili cui le stesse forze vitali non sono in grado di resistere. L’idea di natura implicita è questa: che la natura consta di energie senzienti e intelligen­ti; che la natura non è struttural­mente fissa ed estranea, ma si realizza nell’interazion­e con l’uomo, perché vive come l’uomo e perché l’uomo le appartiene. Questa magia verbale, l’incantesim­o, di cui troviamo testimonia­nza in Virgilio, ha già lungo corso. Molta altra strada, d’altronde, avrà davanti, costituend­o non solo un filone importante della nostra tradizione magica, ma anche una disciplina in cui poesia e scienza sanno ancora collaborar­e.

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