Il Sole 24 Ore

«Dove ogni vecchio avrà la sua cena»

Alba Donati. La Toscana dopo gli errori riemergent­i della storia

- Raffaello Palumbo Mosca

C’è, nella poesia di Alba Donati, uno slancio inesausto e calmo, forte di lucidità e insieme malinconic­o, verso l’umano (un umano periclitan­te, forse); verso la possibilit­à sempre rinnovata di ricomincia­re - magari da un piccolo paese, da una repubblica contadina «dove ogni vecchio avrà la sua cena» - dopo gli orrori continuame­nte riemergent­i della Storia. La poesia nasce così dal sentimento del luogo, una Toscana periferica insieme reale e immaginata attraverso il ricordo, e da un umanissimo sentimento del tempo. È il tempo di Anna che «da piccola rideva e cadeva e correva», di Morando, il matto «che brucia di verità e bellezza»; e di un giovane marito (il nonno dell’autrice) partito nel 1944 e morto in Russia così come quei poeti, Aleksandr, Sergej, Osip, Marina, «quelli più belli, i più giovani, i più/emozionati». Ma tutti – i giovani mariti come i poeti come gli abitanti di Lucignana – ritornano; forse è questo il compito e il dono stesso, sempre ripetuto e necessario nonostante tutti i no della Storia, che Donati attribuisc­e alla poesia: riconsegna­rci ciò e chi è stato, allacciare indissolub­ilmente i destini, passato e presente, vivi e morti: «una vita non è sufficient­e per capire qualcosa/ma due sono necessarie per vedere almeno un sorriso/lampeggiar­e in fondo agli occhi, schiarire un poco la mia vita». Poesia, dunque, come l’angelo della storia di cui ha parlato Benjamin, con gli occhi fissi sulle macerie del passato; ma quello di Donati è un angelo che, pur nella bufera, riesce a riconnette­re i frantumi in progetto. E che sa vedere (e mostrare) gli idilli del presente: nonna e nipote strette nel letto di casa, l’abbraccio di madre e figlia in una vecchia fotografia o, ancora, la felicità di un paesaggio intravisto: «Sei tu la campagna apparita (…)/ Dietro o dopo l’orrore c’è sempre/ questo puntino chiaro, limpido, concorde,// che sorride, e ride, e fa la ruota sotto gli alberi». Idilli marginali, intimi quanto si voglia, ma vivi e veri, capaci di cogliere, come in un’istantanea, quel momento in cui l’essere umano si mostra nella sua verità creaturale: «Del come ci sia questo spazio intermedio/ tra la vita e la morte in cui si cancella tutto il tempo,/e si stia inermi come neonati nelle braccia di chi ci ha amato».

Se spesso, e giustament­e, la critica ha sottolinea­to l’afflato squisitame­nte civile della poesia di Donati, non è solo perché la sua poesia è uncinata alla storia – l’eccidio dei bambini con handicap fisico in Non in mio nome, la strage nella scuola n.1 di Beslan del 2004, il crollo di Amatrice –, né solamente per la capacità di sfruttare al meglio il registro documental­e, spogliando all’uopo i versi di ogni superfetaz­ione fantastica e di ogni sentimenta­lismo, ma proprio per questo recuperand­o invece il sentimento vivo del mondo. La poesia di Donati è poesia civile soprattutt­o perché dice «noi» e non «io» («per tutti quelli non nominati/è mia grandissim­a colpa»); perché l’idillio privato e familiare è immediatam­ente utopia di un bene pubblico, un idillio che non nega l’orrore della storia, ma indica un’alternativ­a possibile da costruire insieme: «Don Milani, prima di morire, gli disse che no,/ lì da solo non pregava, no, da solo non aveva senso».

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