Geniale squalo dissacratore
Biennale Musica. «The Yellow Shark», la produzione-testamento di Frank Zappa, appare come una collana di 17 brevi ritratti, che fotografano alcune istanze del secondo Novecento
Tra baffi e squali, coi battimani ritmati, la Biennale Musica di Venezia edizione numero sessantadue si apre in gloria, e conquista tutti: giovani e non, classici e non, esperti e non. Perché in programma c’è The Yellow
Shark, in prima integrale italiana, la produzione-testamento di quel geniale dissacratore che fu Frank Zappa. Messa insieme con la tecnica del ritaglio e del collage, mischiando pagine nel racconto di una vita: da quelle del ragazzo ribelle, diciottenne nel 1958, disposto a far la fame pur di difendere un pensiero, mangiando pane, burro di arachidi e purè, fino alle provocazioni tra suoni e politica degli anni Ottanta, e poi agli ultimi distillati di pura malinconia. Come Get Whitey, del 1992, l’anno prima della morte, raffinato notturno per grande orchestra, ma cesellata su voci singole. Dove ogni strumento segue una propria strada. Per filamenti, struggenti, in discesa solitaria.
Zappa e i baffi (the Moustache fa davvero parte del logo per i diritti dello «Zappa Family Trust») sono arrivati in corner alla Biennale, salvando un’inaugurazione che fino a prima dell’estate si voleva affidata a Keith Jarrett. Ammalato, cancellati i concerti a New York, il pianista-icona avrebbe probabilmente garantito (pur nell’ansia generalizzata) quel respiro al presente, di tradizione e obbligatorio, al Festival di musica contemporanea. Incarnando perfetto il titolo scelto da Ivan Fedele, direttore artistico della rassegna: Crossing the Atlantic, grintoso e pieno di energia. Jarrett è rimasto, nel catalogo (oltre 300 pagine, contenuti telegrafici) con una bella foto e la menzione del Leone d’oro alla carriera. Ma non arriverà, né a suonare né a ritirare il premio. Che per fortuna, essendo alato, volerà da lui, sicuramente di buon auspicio.
Inaspettato, ancora magnetico, con la bomboniera del Teatro Goldoni al completo, Frank Zappa suona più classico di quanto non si immagini. E per chi volesse ripassarlo, nei prossimi giorni lo ripropone l’Orchestra “Giorgio Bernasconi” dell’Accademia della Scala, al Piccolo a Milano, Roma e Reggio Emilia. Con il punto di forza di Peter Rundel, già sul podio con Zappa nel 1993. A un quarto di secolo dalla prima e dal disco, The
Yellow Shark appare come una collana di 17 brevi ritratti, che filtrano e fotografano una serie di istanze della seconda metà del Novecento. Come la curiosità verso l’esotico di certe percussioni o dell’Alpenhorn, che troneggia vistoso sul palcoscenico, in bizzarra sontuosità; oppure l’attenzione agli organici classici, di tradizione. Anzi, di iper-tradizione, da musica da camera elegante, come il quintetto d’archi o il duo di pianoforte. Zappa Frank, controcorrente, pop, eccentrico, disinibito, lui che si faceva fotografare nudo sul gabinetto (uno spettatore in sala indossa ancora quella famosa maglietta) in realtà - forse - nascondeva uno spirito di cristallo. Ossia una scrittura - quella sì, niente forse - di rigorosa purezza. Meticolosa e controllata. Esatta. E non a caso piaceva a Boulez.
È ideale il “Pmce” per tenere insieme
i due registri, del gioco scanzonato e della puntigliosa esecuzione: il Parco della Musica contemporanea Ensemble, diretto da un danzante, antiaccademico Tonino Ballista è divertente, con cravattini e bretelle gialli: ligio alle indicazioni sulle parti, e dunque con risate, grida, gesticolazioni varie, ma anche impeccabile nelle pagine apparentemente più algide. Meno a effetto. Ma durature. E vive di per sé, oltre Lo squalo. Come ad esempio Times Beach II (1985) puntuto e radi
cale sestetto di fiati, o Ruth is Sleeping (1983/1992) per due pianoforti, dove Jarrett avrebbe potuto metterci la firma. Un gioiello None Of The Above
(1983) per quintetto d’archi, da far studiare agli allievi in Conservatorio, e Time Beach III (1985) per quintetto di fiati, con una parte importante per uno strumento struggente e poco pop come il corno inglese.
Ma in fondo anche il famoso pezzo contro i piccioni di Venezia di provocatorio ha solo il titolo, a “boutade” (e lo sparo finale, con pistola giocattolo). Così come l’improvvisazione contro il Pentagono, che si risolve in qualche sirena, alla Varèse. Mentre sì, puro, purissimo “happening” è Welcome to the United States: uno scatenato David Moss lo interpreta con cilindro a stelle e strisce, dando impudente pizzicotti sul sedere del direttore. Poi, non pago del questionario per entrare in America (con le domande assurde che ancora oggi si devono compilare) si scatena nel bis ritmato dell’orchestra, danzando con le signore della sala. Non proprio in stile Biennale, ma divertente.