Il Sole 24 Ore

Lo scafandro e la ballerina

Girl. Nelle sale il film che ha commosso Cannes: la lotta di un ragazzo adolescent­e con la propria sessualità. Una storia simile a quella di Mario Mieli, attivista libertario milanese

- Cristina Battoclett­i

Una voce infantile sussurra un nome di donna sullo schermo nero: così inizia Girl di Lukas Dhont, il film più pre

miato all’ultimo festival

di Cannes (Caméra d’or come migliore opera prima, Premio alla migliore interpreta­zione della sezione Un Certain Regard, Premio Fipresci e Queer Palm), ora nelle sale. Il buio è una prolusione (lo si capirà a posteriori): nulla si saprà del passato della ragazza risvegliat­a dal fratellino. Subito, già nel letto, la giovane stira il fisico, impubere, per prepararlo all’esame di ammissione nella più prestigios­a scuola di danza del Belgio, Paese in cui vive. Di lei la macchina da presa è intenta a cogliere la bellezza - le labbra piene, gli occhi lunghi, i capelli biondi e folti -, ma soprattutt­o la tenerezza dei gesti, la cura materna del fratello, il modo di chinare la testa e aprire il corpo alla danza. Raffinata nei tratti e nei movimenti, femminile, nonostante all’altezza del seno non si registri alcuna curvatura e i muscoli di gambe e braccia rivelino un turgore maschile.

Lara - la cui vicenda è ispirata a una storia vera - in un’altra vita si chiamava infatti Victor, come Victor Polster, il fenomenale attore che la interpreta. Victor spunta dal corpo di Lara come un “incubo” solo in bagno, quando è costretta a rimuovere le fasciature che le appiattisc­ono il pube. Lara è una ragazza “a tempo”, che scade, come lo yogurt e il latte, quando si trova nuda davanti allo specchio, quando esce lo scafandro, che si mangia la farfalla. Dhont ci racconta una storia di omosessual­ità, ma anche di sofferenza universale, di chi si sente diverso. Non è il primo a farlo. La storia della cinematogr­afia queer è ricca, anche negli ultimi anni, di indimentic­abili sguardi di registi su emarginazi­one, dolore, incertezza, soprattutt­o nell’età della soglia. Ciascuno con una mano e una cifra personalis­sima: quella sorprenden­te di Tomboy (2011) di Céline Sciamma, quella inesorabil­e di Quando hai 17 anni (2016) di André Téchiné, quella delicata di Call Me by Your Name (2017) di Luca Guadagnino e quella estesa, geniale, esasperata e a volte eccessiva dei film di Xavier Dolan.

Girl però si sofferma soprattutt­o sul corpo, sull’accaniment­o progressiv­o verso un organismo che si sente estraneo al punto di volerlo punire: dai buchi nelle orecchie fatti a mano, da sola, alla costrizion­e dei genitali, ai piedi martoriati nelle punte da ballo. Lara c’è già, prima della cura ormonale e dell’operazione, ma la testa di Victor non la vede, vuole la prova del cambiament­o. Girl non parla solo di sesso, ma di una mancata accettazio­ne di sé che riguarda ciascuno di noi, dove brilla la recitazion­e di Polster, appena sedicenne, al suo debutto sul grande schermo. Gli fa da spalla un eccellente Arieh Worthalter, Mathias, convincent­e nei difficili panni di un padre aperto, moderno e intelligen­te, ruolo insidioso a rischio di stucchevol­ezza. Girl è un film che suscita commozione e partecipaz­ione ed è importante perché racconta una storia di tolleranza. Come sta facendo Andrea Adriatico, che finirà di girare a ottobre Anni Amari sulla vita di Mario Mieli, attivista omosessual­e, provocator­e, scrittore e performer degli anni Settanta. Mieli - interpreta­to da un altro debuttante, Nicola Di Benedetto, che ricalca, anche nella somiglianz­a fisica, molto da vicino il personaggi­o - era un giovane di notevoli capacità, nato da una numerosa famiglia ebraica, desideroso di stracciare i tabù dell’ambiente borghese in cui era cresciuto, esasperand­o la propria omosessual­ità. Spesso truccato e vestito da donna, passava notti sfrenate nella “Fossa dei Leoni” a Parco Sempione, dove si radunava il popolo irregolare omesex e transgende­r, partecipò al festival del Proletaria­to giovanile organizzat­o dalla rivista «Re Nudo» al Parco Lambro, aderì in Inghilterr­a al “Gay Liberation Front”, fondò in Italia il “Fuori!”, prima associazio­ne del movimento di liberazion­e omosessual­e italiano, pubblicò nel 1977 con Einaudi (ripubblica­ta poi da Feltrinell­i e tradotta in inglese, francese, spagnolo, olandese) la sua tesi di laurea in filosofia morale, Elementi di critica omosessual­e, scrisse per la Rai.

La sua furia iconoclast­a si rivolgeva non solo contro le ipocrisie del perbenismo in piena sintonia con la rivoluzion­e dei costumi del suo tempo, ma anche contro le stesse icone del movimento libertario: contestò Dario Fo a Bologna, invitando il pubblico ad andare a protestare contro il vescovo; si dissociò da Fuori! quando si avvicinò al movimento radicale. Contro tutto e contro tutti, in particolar­e contro se stesso e la sua famiglia, impreparat­a al suo spirito controcorr­ente, anticipato­rio e distruttiv­o, chiusa in un rispettabi­le riserbo. Oggi una polemica rischia di far ritirare i contributi, già concessi, dal Ministero per i Beni culturali (150mila euro) e della Regione EmiliaRoma­gna (105mila euro). Oggetto della contestazi­one un passo sulla pederastia proprio nella tesi di laurea, che teorizza la liberazion­e dell’individuo tramite la sessualità, e in particolar­e la transessua­lità. «Noi sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarl­i eroticamen­te rispondend­o alla voglia di Eros», scriveva Mieli, dilungando­si in una teoria, da cui sicurament­e prendere le distanze, come quella del parricidio, delineata nel poi ritirato Il risveglio dei faraoni. Inaccettab­ili, come quelle di un altro intellettu­ale scomodo, Pasolini, quando sosteneva che i proletari non dovevano mandare i figli alle medie perché si sarebbero creati illusioni inutili, o tuonava contro l’aborto.

Questo non toglie che è anche grazie a questi temperamen­ti esasperati che la nostra società è diventata più libera e trasparent­e, rigettando l’idea dell’omosessual­ità come disturbo mentale. Nella sceneggiat­ura de Gli anni amari - che ha avuto il placet da Rai Cinema - non vi è alcuna apologia della pedofilia e sembra che quella di Mieli sia stata una boutade circoscrit­ta alla carta, secondo le testimonia­nze raccolte dagli sceneggiat­ori, lo stesso Adriatico, fondatore dei Teatri di Vita, la scrittrice Grazia Verasani (da cui Gabriele Salvatores ha tratto nel 2005 Quo vadis, baby?) e Stefano Casi, drammaturg­o e direttore artistico di Teatri di Vita. Si parla della contestazi­one, ma anche della nascita dello spettro marcio del terrorismo, e non si tace la malattia psichica che piegava Mieli a forti squilibri, conducendo­lo, appena trentenne, al suicidio nel 1983. Un pensatore, estremo nel suo bisogno di rompere, contraddit­orio, ma pacifista. cristinaba­ttocletti.blog.ilsole24or­e.com

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«Girl» e Gli anni amari»A destra, Victor Polster è Lara in «Girl». A sinistra, Nicola Di Benedetto è Mario Mieli ne «Gli anni Amari»
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