Lo scafandro e la ballerina
Girl. Nelle sale il film che ha commosso Cannes: la lotta di un ragazzo adolescente con la propria sessualità. Una storia simile a quella di Mario Mieli, attivista libertario milanese
Una voce infantile sussurra un nome di donna sullo schermo nero: così inizia Girl di Lukas Dhont, il film più pre
miato all’ultimo festival
di Cannes (Caméra d’or come migliore opera prima, Premio alla migliore interpretazione della sezione Un Certain Regard, Premio Fipresci e Queer Palm), ora nelle sale. Il buio è una prolusione (lo si capirà a posteriori): nulla si saprà del passato della ragazza risvegliata dal fratellino. Subito, già nel letto, la giovane stira il fisico, impubere, per prepararlo all’esame di ammissione nella più prestigiosa scuola di danza del Belgio, Paese in cui vive. Di lei la macchina da presa è intenta a cogliere la bellezza - le labbra piene, gli occhi lunghi, i capelli biondi e folti -, ma soprattutto la tenerezza dei gesti, la cura materna del fratello, il modo di chinare la testa e aprire il corpo alla danza. Raffinata nei tratti e nei movimenti, femminile, nonostante all’altezza del seno non si registri alcuna curvatura e i muscoli di gambe e braccia rivelino un turgore maschile.
Lara - la cui vicenda è ispirata a una storia vera - in un’altra vita si chiamava infatti Victor, come Victor Polster, il fenomenale attore che la interpreta. Victor spunta dal corpo di Lara come un “incubo” solo in bagno, quando è costretta a rimuovere le fasciature che le appiattiscono il pube. Lara è una ragazza “a tempo”, che scade, come lo yogurt e il latte, quando si trova nuda davanti allo specchio, quando esce lo scafandro, che si mangia la farfalla. Dhont ci racconta una storia di omosessualità, ma anche di sofferenza universale, di chi si sente diverso. Non è il primo a farlo. La storia della cinematografia queer è ricca, anche negli ultimi anni, di indimenticabili sguardi di registi su emarginazione, dolore, incertezza, soprattutto nell’età della soglia. Ciascuno con una mano e una cifra personalissima: quella sorprendente di Tomboy (2011) di Céline Sciamma, quella inesorabile di Quando hai 17 anni (2016) di André Téchiné, quella delicata di Call Me by Your Name (2017) di Luca Guadagnino e quella estesa, geniale, esasperata e a volte eccessiva dei film di Xavier Dolan.
Girl però si sofferma soprattutto sul corpo, sull’accanimento progressivo verso un organismo che si sente estraneo al punto di volerlo punire: dai buchi nelle orecchie fatti a mano, da sola, alla costrizione dei genitali, ai piedi martoriati nelle punte da ballo. Lara c’è già, prima della cura ormonale e dell’operazione, ma la testa di Victor non la vede, vuole la prova del cambiamento. Girl non parla solo di sesso, ma di una mancata accettazione di sé che riguarda ciascuno di noi, dove brilla la recitazione di Polster, appena sedicenne, al suo debutto sul grande schermo. Gli fa da spalla un eccellente Arieh Worthalter, Mathias, convincente nei difficili panni di un padre aperto, moderno e intelligente, ruolo insidioso a rischio di stucchevolezza. Girl è un film che suscita commozione e partecipazione ed è importante perché racconta una storia di tolleranza. Come sta facendo Andrea Adriatico, che finirà di girare a ottobre Anni Amari sulla vita di Mario Mieli, attivista omosessuale, provocatore, scrittore e performer degli anni Settanta. Mieli - interpretato da un altro debuttante, Nicola Di Benedetto, che ricalca, anche nella somiglianza fisica, molto da vicino il personaggio - era un giovane di notevoli capacità, nato da una numerosa famiglia ebraica, desideroso di stracciare i tabù dell’ambiente borghese in cui era cresciuto, esasperando la propria omosessualità. Spesso truccato e vestito da donna, passava notti sfrenate nella “Fossa dei Leoni” a Parco Sempione, dove si radunava il popolo irregolare omesex e transgender, partecipò al festival del Proletariato giovanile organizzato dalla rivista «Re Nudo» al Parco Lambro, aderì in Inghilterra al “Gay Liberation Front”, fondò in Italia il “Fuori!”, prima associazione del movimento di liberazione omosessuale italiano, pubblicò nel 1977 con Einaudi (ripubblicata poi da Feltrinelli e tradotta in inglese, francese, spagnolo, olandese) la sua tesi di laurea in filosofia morale, Elementi di critica omosessuale, scrisse per la Rai.
La sua furia iconoclasta si rivolgeva non solo contro le ipocrisie del perbenismo in piena sintonia con la rivoluzione dei costumi del suo tempo, ma anche contro le stesse icone del movimento libertario: contestò Dario Fo a Bologna, invitando il pubblico ad andare a protestare contro il vescovo; si dissociò da Fuori! quando si avvicinò al movimento radicale. Contro tutto e contro tutti, in particolare contro se stesso e la sua famiglia, impreparata al suo spirito controcorrente, anticipatorio e distruttivo, chiusa in un rispettabile riserbo. Oggi una polemica rischia di far ritirare i contributi, già concessi, dal Ministero per i Beni culturali (150mila euro) e della Regione EmiliaRomagna (105mila euro). Oggetto della contestazione un passo sulla pederastia proprio nella tesi di laurea, che teorizza la liberazione dell’individuo tramite la sessualità, e in particolare la transessualità. «Noi sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla voglia di Eros», scriveva Mieli, dilungandosi in una teoria, da cui sicuramente prendere le distanze, come quella del parricidio, delineata nel poi ritirato Il risveglio dei faraoni. Inaccettabili, come quelle di un altro intellettuale scomodo, Pasolini, quando sosteneva che i proletari non dovevano mandare i figli alle medie perché si sarebbero creati illusioni inutili, o tuonava contro l’aborto.
Questo non toglie che è anche grazie a questi temperamenti esasperati che la nostra società è diventata più libera e trasparente, rigettando l’idea dell’omosessualità come disturbo mentale. Nella sceneggiatura de Gli anni amari - che ha avuto il placet da Rai Cinema - non vi è alcuna apologia della pedofilia e sembra che quella di Mieli sia stata una boutade circoscritta alla carta, secondo le testimonianze raccolte dagli sceneggiatori, lo stesso Adriatico, fondatore dei Teatri di Vita, la scrittrice Grazia Verasani (da cui Gabriele Salvatores ha tratto nel 2005 Quo vadis, baby?) e Stefano Casi, drammaturgo e direttore artistico di Teatri di Vita. Si parla della contestazione, ma anche della nascita dello spettro marcio del terrorismo, e non si tace la malattia psichica che piegava Mieli a forti squilibri, conducendolo, appena trentenne, al suicidio nel 1983. Un pensatore, estremo nel suo bisogno di rompere, contradditorio, ma pacifista. cristinabattocletti.blog.ilsole24ore.com