Il Sole 24 Ore

I TROPPI «SE» CHE PESANO SULLA SOSTENIBIL­ITÀ DEL DEBITO

- di Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli á@lorenzocod­ogno á@GiampaoloG­alli © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

L’intervista al ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria pubblicata domenica da questo giornale è servita a chiarire alcuni aspetti cruciali della logica sottostant­e la manovra proposta dal governo. La domanda che ci si pone è se sia stata sufficient­e a dissipare i dubbi sulla sostenibil­ità del debito pubblico italiano, quei dubbi che fanno sì che lo spread sia tanto elevato.

Per rispondere a questa domanda, è utile partire da una consideraz­ione aritmetica: l’ obiettivo annunciato, deficit al 2,4% per tre anni, dovrebbe consentire di mantenere il rapporto debito/Pil costante o anche in leggera diminuzion­e, ma solo in presenza di tassi di crescita almeno analoghi a quelli degli ultimi anni e di un’inflazione attorno all’1,5%. Se la crescita dovesse ridiventar­e negativa, anche di poco, il rapporto debito/ Pil tornerebbe a crescere; qualunque incidente di percorso, di origine interna o internazio­nale, sarebbe esiziale.

Una seconda consideraz­ione rilevante è che l’Italia rinuncia a mettere in sicurezza i conti pubblici nel momento in cui le condizioni esterne sono relativame­nte favorevoli. Se l’Italia non lo fa ora, sarà forse costretta a farlo, sotto la pressione dei mercati finanziari, quando la congiuntur­a sarà peggiore e i tassi d’interesse più alti. Ma i costi sociali di un aggiustame­nto siffatto sarebbero sicurament­e maggiori dei costi di un aggiustame­nto graduale in tempi normali. Di qui il dubbio che forse l’ Italia l’ aggiustame­nto non lo farà mai e che dunque il debito pubblico non è sostenibil­e.

Una terza consideraz­ione è che il 2,4% è assolutame­nte insufficie­nte per realizzare anche solo una minima parte del contratto di governo. Secondo le indicazion­i del ministro, tenendo conto dell’intenzione di disinnesca­re le clausole di salvaguard­ia che prevedono un aumento dell’Iva, della minor crescita rispetto al Defdiapr ile, dei maggiori interessi e delle cosiddette spese indifferib­ili ,“a bocce ferme” il deficit del 2019 è di circa il 2%. Quindi il margine per nuove iniziative in deficit è soltanto di 0,4% che corrispond­e a circa 7 miliardi. A queste si dovrebbero aggiungere ulteriori risorse, ma non sembra che il governo abbia individuat­o importanti fonti di copertura tramite, ad esempio, una seria spending review, anche se il ministro Tria la sembra suggerire.

In ogni caso l’ammontare complessiv­o sarebbe insufficie­nte per far fronte alle promesse del contratto di governo che, come noto, superavano i 100 miliardi.

A questo si obietta che il programma verrà attuato gradualmen­te e che sarà finanziato dalla crescita economica, ma questa non è un’obiezione solida.

Se il contratto a regime costa 100 miliardi, a regime esso appesantis­ce i conti pubblici di 100 miliardi e non è verosimile che la ripresa economica faccia il miracolo di rendere tutto questo sostenibil­e. Reddito di cittadinan­za e aumento delle pensioni, nel migliore dei casi, possono dare un po’ di sostegno alla domanda, ma fanno ben poco per elevare la crescita potenziale del Paese nel medio e lungo periodo. Esse hanno però un effetto permanente sul deficit e dunque alla lunga causano un aumento del rapporto debito/Pil.

Il ministro Tria conosce bene queste obiezioni e per questo afferma che il deficit verrà ridotto dopo il triennio iniziale e sottolinea l’ importanza del pi anodi investimen­ti annunciato. Ma non è facile capire come investimen­ti aggiuntivi per lo 0,2% del Pil possano giustifica­re una ripresa all’1,6% nel 2019 e 1,7% nel 2020. A ciò si aggiunga che l’aumento del costo del debito pubblico, conseguent­e sia all’aumento dello spread, sia ai probabili sviluppi della politica monetaria europea, potrebbe addirittur­a ridurre i margini di manovra.

Tutto induce a ritenere dunque che il 2,4% per gli anni successivi al 2019, e forse anche per il 2019, sia destinato a essere superato. Nel complesso, un deficit al 2,4% o oltre può forse dare l’illusione di una espansione un po’ più forte per un anno o due, ma alla fine lascerà una crescita potenziale invariata e un debito più alto.

Si aggiunga che già oggi si sa che l’Unione europea difficilme­nte potrà far buon viso a cattivo gioco e che per le agenzie di rating sarà molto difficile mantenere i giudizi attuali. Occorre infine tenere conto che non è affatto dissipato il timore che, in caso di crisi, l’Italia scelga la strada dell’uscita dall’euro: circa metà dell’aumento dello spread che si è realizzato da maggio a oggi è dovuto a questo timore.

Queste preoccupaz­ioni sono ben presenti nell’autorevole monito del Presidente Mattarella. L’auspicio, che sembra divenire una sempre più tenue speranza, è che di questi rischi, non certo secondari, vogliano tenere conto il governo e il parlamento nel decidere i prossimi passi verso la legge di bilancio.

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