LE BANCHE NON SONO LO SCERIFFO DI NOTTINGHAM
Può sembrare facile trovare il consenso proponendo di far pagare alle banche l’ambizioso programma di spesa del nuovo governo, ma ancora una volta si rischia di ignorare le condizioni di vincolo in cui opera oggi l’economia
italiana e che sono ben più cogenti delle regole europee. Le banche italiane stanno infatti attraversando un periodo molto delicato perché la crisi economica ha avuto effetti molto pesanti sui loro bilanci.
Questo è dimostrato dal fatto che per il sistema nel suo complesso l’utile lordo di quasi dieci anni a partire dal 2008 è stato eroso dagli accantonamenti per perdite su crediti diventati inesigibili. Solo nel 2017 la redditività è tornata a livelli positivi, ma al netto di componenti straordinarie è ferma al 4 per cento, dunque è inferiore al costo del capitale, il che significa che le banche non stanno producendo ancora ricchezza per i propri azionisti, dunque per i risparmiatori italiani.
II sistema bancario italiano (come del resto altri in Europa) è sulla strada della ripresa, ma – piaccia o no – non ha ancora raggiunto una condizione di equilibrio stabile dopo la batosta della crisi. Vi sono ancora banche in una delicata fase di risanamento; vi sono grandi banche impegnate in una difficile (e onerosa) operazione di smaltimento delle scorie del passato sotto forma di crediti deteriorati; vi sono intere categorie come il credito cooperativo che affrontano l’incognita di una riforma di settore destinata a mutare radicalmente condizioni operative e strutture gestionali. Tutte stanno cercando di contenere i costi aziendali e sociali di una riduzione del personale imposta dalle nuove tecnologie. Non è esattamente la descrizione di un settore da spremere per trovare le attese coperture
alla «finanziaria del popolo».
L’incertezza sul documento governativo ha determinato un aumento preoccupante dello spread che per le banche si traduce in un aumento immediato dei costi di raccolta sui mercati interbancari e dunque sui prezzi di borsa perché gli utili che già languono vengono ulteriormente erosi. È significativo che il nuovo management di Banca Carige (uno dei non pochi cantieri di risanamento ancora aperti) abbia indicato in questo fattore esterno il primo ostacolo incontrato al difficile compito che ha assunto. Più in generale, l’aumento dello spread ha creato un grave svantaggio competitivo delle nostre banche: ad esempio rispetto a quelle spagnole, che possono finanziarsi a tassi inferiori di oltre cento punti base. Tutto questo si riflette in costi che imprese e famiglie pagano due volte. La prima sotto forma di aumento del costo del debito già accumulato; la seconda sotto forma di riduzione dell’offerta futura di credito, che potrebbe ostacolare il raggiungimento degli obiettivi di crescita della domanda e degli investimenti.
Tecnicamente poi le misure proposte suscitano più di una perplessità. La riduzione della deducibilità degli interessi passivi (la voce di costo più importante per le banche) si rivela di fatto un aumento dell’aliquota, che va quindi in direzione contraria all’annunciata riduzione degli oneri fiscali per le
imprese. Perplessità non minori nascono dalla proposta di ridurre la deducibilità delle perdite su crediti. In primo luogo, perché si contraddicono anni di politica fiscale in cui alla fine è stato riconosciuto un principio elementare: le perdite su crediti sono veri e propri costi di produzione del settore bancario e lo Stato non può pretendere che divengano fiscalmente rilevanti solo quando la perdita è maturata definitivamente, cioè «a babbo morto» come si dice in Toscana. In secondo luogo perché vi sarebbe un ulteriore elemento di svantaggio competitivo rispetto agli altri paesi e un ulteriore impatto negativo sul conto economico delle banche, che si aggiungerebbe a quello derivante dall’aumento degli spread. Senza dimenticare che i crediti verso l’erario che le banche accumulano per questo canale rappresentano un autentico prestito forzoso allo Stato, dunque un balzello vero e proprio.
Il sistema bancario è una componente essenziale di ogni sistema produttivo e oggi in Italia deve essere considerato come una risorsa fondamentale per raggiungere gli obiettivi di crescita indicati nel documento programmatico. Evitiamo di trattarlo come una facile cassaforte cui attingere: dentro ci sono i risparmi degli italiani e il nostro futuro di crescita, non il bottino predatorio dello sceriffo di Nottingham.