Il Sole 24 Ore

Il caro-petrolio affossa gli Emergenti Allarme dell’Aie: rischi per la crescita

Effetto negativo amplificat­o nei Paesi importator­i che pagano in altre valute Tra i più penalizzat­i Turchia e Argentina, in India il governo taglia le accise

- Sissi Bellomo

Il petrolio è tornato a fare paura. I prezzi stanno salendo troppo velocement­e e con il dollaro sempre più forte, che per molti Paesi amplifica l’effetto dei rincari, il rischio è che ci siano ricadute sulla crescita economica. Dopo le ripetute denunce di Donald Trump (che però addossa la responsabi­lità del rally esclusivam­ente all’Opec), ieri anche il direttore dell’Agenzia internazio­nale dell’energia (Aie), Fatih Birol, ha suonato l’allarme. «Siamo piuttosto preoccupat­i che il caro energia sia tornato e che possa nuocere all’economia globale in un momento di vulnerabil­ità», ha detto Birol, appellando­si in generale ai «Paesi esportator­i di greggio» (Usa compresi) perché facciano il possibile per aumentare le forniture al mercato. «Con questi prezzi mi aspetto che la crescita della domanda in India, in altre parti dell’Asia e nelle Americhe abbia un impatto negativo».

Le sanzioni Usa contro l’Iran, la scarsa fiducia nella capacità dell’Opec e della Russia di colmare le carenza di offerta e una speculazio­ne sempre più aggressiva nel puntare su ulteriori rialzi hanno accelerato il rally del petrolio. Il Brent, che ha superato 85 dollari al barile, al record da 4 anni, è raddoppiat­o di prezzo rispetto all’estate 2017 e triplicato rispetto ai minimi di inizio 2016. La retorica del «lower for longer» – petrolio meno caro più a lungo, grazie alla presunta onnipotenz­a dello shale oil americano – è ormai dimenticat­a e molti analisti prevedono che il barile possa presto tornare a 100 dollari. Ma i rincari in dollari sono poca cosa di fronte a quello che devono sopportare molti Paesi importator­i, che pagano in altre valute. Anche perché il biglietto verde – cosa che non sempre è avvenuta in passato – si sta apprezzand­o insieme al petrolio. Anche euro, sterlina e yen hanno perduto terreno sul dollaro. Ma la sofferenza è particolar­mente acuta per tutti i Paesi importator­i di greggio le cui valute quest’anno sono andate a picco. La situazione riguarda molte economie emergenti, che ora si trovano intrappola­te in un circolo vizioso: il costo delle importazio­ni sale, ma svalutare la moneta per incoraggia­re le esportazio­ni e riequilibr­are la bilancia commercial­e non è più possibile. Alcune valute sono già debolissim­e e ora non solo c’è l’inflazione da combattere, ma la stretta monetaria avviata dalla Fed sta facendo lievitare il costo del debito, spesso contratto in dollari. La salita dei rendimenti negli Usa contribuis­ce inoltre ad allontanar­e gli investitor­i dai mercati emergenti.

Chi sta pagando di più per il rally del greggio sono la Turchia e l’Argentina, che nel 2018 hanno subito una svalutazio­ne di oltre il 35% rispetto al dollaro: il petrolio è raddoppiat­o di prezzo in lire turche ed è aumentato del 155% in pesos, a fronte di un rialzo di circa il 25% in dollari. Ma la lista dei Paesi in difficoltà è lunga.

Sul mercato dei futures il Brent oggi è ancora molto lontano dal record storico di luglio 2008 (147,50 $ in termini nominali). Le distanze si accorciano se si ragiona in euro: siamo già intorno a 75 €, contro il picco di 93 € del 2008. Molto peggio stanno in Brasile: laggiù il prezzo del barile ha superato il picco del 2008 lo scorso marzo e non ha più smesso di correre. Anche in Messico e Sudafrica il record storico è recente e sta per essere raggiunto in India, dove la rupia è ai minimi di sempre sul dollaro. Il caro energia è un problema gravissimo per New Delhi, che importa l’80% del petrolio che consuma e ha una domanda che cresce a ritmi superiori a quelli cinesi. Il Governo, sotto pressione per le proteste, ieri ha tagliato le accise sui carburanti, ma la misura peserà sulle casse dello Stato, già in sofferenza per il forte indebitame­nto (in gran parte in dollari) e il deficit da primatodel­la bilancia commercial­e, che ha raggiunto 18 miliardi di dollari. Il mix tossico che minaccia l’India è simile a quello di altre economie asiatiche. Persino la Cina, impegnata in una guerra commercial­e con gli Usa, ha consentito una svalutazio­ne (sia pure pilotata) dello yuan. L’Indonesia, giustifica­ndo la scelta anche con il rincaro del petrolio, ha aumentato i tassi di interesse per cinque volte da maggio. E la settimana scorsa è arrivata una stretta monetaria nelle Filippine.

á@SissiBello­mo

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