Il Sole 24 Ore

Nelson Mandela

Le lettere di 10.052 giorni di prigionia

- Tommaso Munari

Per prima cosa, sgombrate la mente. Cancellate l'immagine del volto di Nelson Mandela riprodotto su miliardi di t-shirt, mug, screensave­r e ogni altra superficie, reale o virtuale, colonizzat­a dalla cultura di massa. Cancellate soprattutt­o l’immagine del volto di Morgan Freeman che lo ha impersonat­o in uno dei film più sottilment­e reazionari di Clint Eastwood (Invictus, 2009). Cancellate le parole e le melodie delle canzoni che gli hanno dedicato gli Specials, gli U2, i Simple Minds e Tracy Chapman. Cancellate perfino le varie citazioni dei suoi discorsi estrapolat­e dal loro contesto e degradate a slogan dai politici di turno. Cancellate, insomma, l’icona, il simbolo Nelson Mandela. Ora aprite le sue Lettere dal carcere, curate amorevolme­nte da Sahm Venter, ricercatri­ce della Fondazione Nelson Mandela con un passato di giornalist­a all’Associated Press, e pubblicate contempora­neamente in undici lingue nel centenario della nascita dell’ex presidente sudafrican­o. Avete sotto gli occhi il ritratto più intimo e autentico dell’uomo Nelson Rolihlahla Mandela («Dalibunga» per i suoi familiari), ripulito da patine, polvere e ogni altra incrostazi­one posteriore.

Come sempre i documenti, e in particolar­e le lettere, ci riportano a una sorta di grado zero della conoscenza. È un viaggio intellettu­ale disintossi­cante e spesso necessario, soprattutt­o se coinvolge figure storiche divenute oggetto di un culto della personalit­à.

Nel caso di Mandela questo viaggio comincia nel 1962. Il giovane esponente dell’African National Congress (Anc) è appena rientrato in patria da un Grand Tour dell’Africa, nel corso del quale ha visitato i nuovi Stati indipenden­ti, ha raccolto fondi per la causa dell’Anc e si è sottoposto a un addestrame­nto militare. Dopo il massacro di Sharpevill­e (21 marzo 1960), infatti, Mandela si è persuaso che il solo mezzo per sconfigger­e il regime di apartheid sia la lotta armata. Ma il 5 agosto 1962 viene arrestato nella cittadina di Cedara e il 7 novembre condannato per aver organizzat­o il grande sciopero del maggio 1961 ed essere uscito dal paese senza passaporto.

È l’inizio di una prigionia lunga 10052 giorni, trascorsi per la maggior parte nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, al largo di Città del Capo. Ventisette anni e mezzo di reclusione in cui il suo solo contatto con il mondo, a parte le rare visite consentite, sono le lettere che invia e riceve. Lettere, per inciso, contingent­ate, censurate e spesso neppure recapitate.

I destinatar­i di Mandela sono essenzialm­ente tre: la famiglia, gli amici, lo Stato. Al primo gruppo appartengo­no le lettere ai figli Kgatho, Maki, Zeni e Zindzi e alla moglie Winnie, oggetto di un amore assoluto che cresce nutrendosi dell’assenza (e che forse per questo non sopravvive­rà alla scarcerazi­one di Mandela). Ma Winnie non è solo l’adorata compagna di vita, è anche un’indomita compagna di lotta («ogni tuo più piccolo osso, ogni etto di carne e ogni goc¬cia di sangue, il tuo intero organismo è stato ottenuto da un blocco di granito», 20 giugno 1970).

Le lettere ai figli e ai numerosi nipoti, incentrate sull’importanza della scuola e dell’istruzione, fanno pensare a quelle di Gramsci ai piccoli Delio e Julik. Due padri a cui la condizione di carcerati non impedì di alternare all’affetto la predica. Ma quanta dolcezza nella severità delle parole con le quali, dopo l’arresto di Winnie, Mandela prepara le figlie Zeni e Zindzi alla vita di solitudine che le attende, stimolando in loro l’orgoglio di avere una madre che combatte per il suo popolo!

Lo Stato è impersonat­o, di volta in volta, dall’ufficiale in comando a Robben Island, dal commissari­o per le Carceri, dal ministro della Giustizia e da altre figure istituzion­ali che incarnano il monopolio politico della minoranza boera. Ogni lettera destinata a loro è una lezione di rigore. Esemplari quelle del 23 ottobre 1967 e del 22 aprile 1969 in cui Mandela ripercorre la propria vicenda politica, riconferma­ndo l’adesione al nazionalis­mo africano d’ispirazion­e socialista e la legittimit­à del ricorso alla violenza in determinat­e condizioni storiche, come dimostrava persino la recente guerra anglo-boera.

Gli amici sono invece attivisti e militanti anti-apartheid come il presidente dell’Anc in esilio Oliver Tambo (a cui Mandela scrive lettere in codice indirizzan­dole alla moglie Adelaide), la scrittrice di origini indiane Fatima Meer (autrice della prima biografia autorizzat­a di Mandela) e la parlamenta­re progressis­ta Helen Suzman (una delle molte donne pubbliche sudafrican­e celebrate in questo epistolari­o). È nelle lettere agli amici con cui condivide l’esperienza della militanza che emerge con maggior chiarezza un dato della vita carceraria di Mandela da lui continuame­nte negato: il suo essere fatalmente rivolto al passato, al ricordo, nonostante il suo spirito disponga di «potenti ali» (31 gennaio 1970).

Ma l’aspetto più affascinan­te di questo epistolari­o è senza dubbio il suo plurilingu­ismo. La maggioranz­a delle lettere è scritta in inglese, un inglese terso e preciso come una lama (tradotto in un italiano talvolta zoppicante), di cui Mandela dimostra di conoscere anche la letteratur­a citando a memoria versi di Shakespear­e, Wordsworth e Tennyson. Alcune sono scritte in afrikaans, la lingua della minoranza bianca che il prigionier­o studia per poterla utilizzare come arma contro i suoi carcerieri. Altre in xhosa, la lingua materna a cui ricorre quando deve esprimere riconoscen­za e affetto. E qua e là, a seconda dei destinatar­i, inserisce tessere in zulu, sesotho, setswana, gujarati…

Ma è una parola in lingua xhosa a ricorrere continuame­nte in questo prezioso epistolari­o: l’intraducib­ile nangamso, che esprime il senso di profonda gratitudin­e verso una persona che ha fatto per gli altri più di quanto fosse suo dovere. Una persona, per intenderci, come Nelson Mandela.

Affascinan­te è il plurilingu­ismo: si va dall’inglese

all’afrikaans alla lingua xhosa

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REUTERS In quella cella Nelson Mandela ritratto nel ’94 nella prigione di Robben Island, in cui ha trascorso la maggior parte dei sui 27 anni di carcere(fu liberato l’11 febbraio 1990)

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