Il Sole 24 Ore

La Borsa cede il 2,4%: ecco perché i mercati continuano a vendere

I fondi non credono nel Def, temono Italexit e aspettano le agenzie di rating

- Morya Longo

La Borsa di Milano cade del 2,43%, tornando sui minimi da aprile 2017. Lo spread tra i BTp e i Bund sale fino a 310 punti base (record dal giugno 2013), per poi chiudere a 308. Il divario tra i titoli di Stato italiani e quelli spagnoli sale addirittur­a su livelli mai visti prima (200 punti), superando anche i 178 toccati nel 2011. Segno che l’Italia, sui mercati, balla da sola. Anche se i tremori si iniziano a sentire altrove, come dimostra l’euro che è sceso fino ai minimi da 7 settimane sotto 1,15 sul dollaro. Che gli investitor­i non abbiano apprezzato la Nota di Aggiorname­nto del Def è insomma evidente.

Meno scontato, invece, è il motivo: in fondo tanti Governi hanno provato a “tirare” sul deficit o hanno provato a sbattere i pugni sul tavolo a Bruxelles. Perché questa volta il mercato è così teso? I motivi sono tre. Uno: in pochi credono che il Pil possa crescere come il Governo prevede. Questo crea molti dubbi sulla tenuta dei conti pubblici in futuro. Due: sui mercati resta un timore di fondo (nonostante le smentite) che prima o poi lo scontro con Bruxelles possa portare l’Italia fuori dall’euro. Tre: le agenzie di rating. Bene inteso, i mercati possono sbagliare. Ma oggi questo è il loro modo di vedere le cose. E, giusto o sbagliato che sia, col loro “punto di vista” l’Italia deve fare i conti.

1. Tra sogno e realtà

Il pilastro della politica economica del Governo è la crescita. Il Def stima un’espansione del Pil dell’1,5% nel 2019, dell’1,6% nel 2020 e dell’1,4% nel 2021. Il problema è che sul mercato pochi credono raggiungib­ili questi obiettivi. Se si prende la banca dati di Bloomberg (che colleziona le previsioni di tutte le maggiori istituzion­i del mondo), la media degli economisti stima per l’Italia una crescita dell’1,1% nel 2019 e dell’1% nel 2020. Anche chi ha aggiornato le stime dopo la pubblicazi­one del Def (tra venerdì e ieri) non sfoggia grande ottimismo: Barclays, Morgan Stanley, Ubs e UniCredit prevedono nel 2019 una crescita dell’1,1%, Nomura dell’1%, Fitch dell’1,2% e JP Morgan dell’1,3%. Solo i tedeschi di Commerzban­k hanno allineato le stime all’1,5% del Governo, ma vedono più nero negli anni successivi.

Questo perché il Governo ha molta più fiducia degli economisti internazio­nali sugli effetti benefici della Manovra in arrivo. Secondo alcuni calcoli (escludendo il disinnesco dell’aumento dell’Iva), il Governo starebbe stimando che ogni 100 euro di Manovra sia in grado di provocare un aumento del P il superiore a 100 euro. Ovviamente i calcoli dipendono da come si fanno, ma una cosa è certa: quasi nessuno sul mercato condivide le stime del Governo. Questo crea incertezza: se la crescita si rivelasse inferiore a quella prevista nel Def,all ora anche i rapporti tra deficit e debito sul P il potrebbero essere destinati a salire nei prossimi anni.

2. I pugni sul tavolo

Qui viene il secondo timore: le tensioni con l’Europa. Questo non è il primo Governo del Continente, né sarà l’ultimo, che ha aspri dibattiti con Bruxelles. Ma questa volta c’è un rumore di fondo che allarma gli investitor­i più del solito: la paura (mai sopita) che l’Italia possa usare lo scontro con Bruxelles come pretesto per uscire dall’euro prima o poi. Ieri il Vicepremie­r Di Maio ha nuovamente negato questa eventualit­à: «Non vogliamo uscire né dall’euro né dall’Unione Europea», ha detto. Qualche dubbio in più nel pomeriggio l’ha diffuso la francese Marine Le Pen, secondo la quale «Matteo Salvini ha detto che per ora non è una priorità» uscire dall’euro. Lanciando, con quel «per ora», un segnale non poco equivoco.

Il mercato resta teso. E attualment­e “prezza” (seppur in minima parte) questo rischio. Lo dimostrano i Cds, cioè le polizze assicurati­ve che servono agli investitor­i per coprirsi dal rischio di insolvenza di qualunque debitore. Per i Paesi europei esistono due tipi di “polizze”: quelle precedenti al 2013 assicurano gli investitor­i dal solo rischio di insolvenza, mentre quelle successive al 2013 coprono anche dal rischio di ridenomina­zione del debito. Cioè di uscita dall’euro. Ebbene: nel caso dell’Italia, assicurars­i anche da Italexit costa il 2,76% dell’importo che si “copre”, mentre assicurars­i dal solo rischio di default costa l’1,70%. Segno che il mercato tutt’ora non esclude questa eventualit­à. Che gli investitor­i vedono come il fumo negli occhi: chi ha prestato a uno Stato euro non desidera infatti che gli vengano restituite lire.

3. Le agenzie di rating

Il terzo tema è legato ai primi due: a fine ottobre arriverà la decisione delle agenzie di rating. Particolar­mente temuta è quella di Moody’s, che ha già messo il rating italiano sotto osservazio­ne per un possibile declassame­nto. Se agisse in questo senso, il rating italiano arriverebb­e a un solo “gradino” dal livello “speculativ­o” (in gergo definito junk, spazzatura). A prescinder­e dalla stima o meno che gli italiani possano avere per le agenzie di rating, il loro giudizio è importante perché in base al loro voto si determinan­o le scelte di molti investitor­i. Se il rating scendesse a livello «junk» (o si avvicinass­e troppo), molti fondi sarebbero costretti a ridurre l’esposizion­e sul debito italiano. Per un motivo tecnico, dunque, il giudizio delle agenzie di rating potrebbe peggiorare il nostro spread. Dunque pesare su economia e conti pubblici. Così si torna al punto uno.

á@MoryaLongo

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