Nel modello «macro» del Mef previsioni con spread a 240-260
Savona aveva detto: «Il 300 o qualcosa di simile è già incorporato nei nostri conti»
La spesa per interessi messa in programma dalla Nota di aggiornamento al Def non è arrivata ai «300 punti, o qualcosa di simile» indicati dal ministro degli Affari europei a Porta a Porta come «già incorporati nelle previsioni». Ma si è alzata nel tempo, inseguendo una pressione sui titoli di Stato gonfiata dai giorni caldi dei vertici di governo, delle feste sul balcone e dei tiri alla fune sugli obiettivi di deficit. Perché la prudenza non è mai troppa, ma qualche volta può non bastare.
Intorno a questo equilibrio (quasi) impossibile si gioca un pezzo importante delle sorti del piano di finanza pubblica disegnato dalla NaDef.
Le preoccupazioni sul punto dei tecnici dell’Economia si leggono nelle tabelle della Nota. Nel quadro programmatico, quello che calcola le dinamiche di finanza pubblica alla luce degli effetti della manovra, le cedole dei titoli di Stato valgono nei prossimi tre anni rispettivamente il 3,7%, 3,8% e 3,9% del Pil. Nel tendenziale, che essendo «a politiche invariate» della manovra non tiene conto, la stessa voce è invece meno vivace: pesa, negli stessi tre anni, per il 3,6%, 3,7% e 3,8% del Pil. Come si spiega questo strano fenomeno?
La motivazione è nel calendario. Le stime sul tendenziale, che l’Ufficio parlamentare di bilancio ha validato il 19 settembre, sono state fatte prima, e incorporavano una curva dei rendimenti sintetizzabile con un livello di spread a 240 punti. Nel frattempo, però, i mercati hanno continuato a scaldarsi sui titoli italiani. La distanza con i decennali tedeschi è salita a 267 punti il 28 settembre, ha strappato fino a 301 il 2 ottobre e da allora è sempre andata in altalena fra 280 e 300. E a Via XX Settembre se ne è tenuto conto, alzando i livelli di riferimento delle previsioni verso uno spread a quota 260. Nel cambio di passo dello spread alla base delle previsioni non c’entra ovviamente l’effetto della manovra, che nell’ottica del Mef è chiamata a calmare le paure degli investitori e non certo ad alimentarle.
In ogni caso il livello di riferimento a 260 è più basso rispetto a quello reale raggiunto dallo spread negli ultimi giorni. Per due ragioni. I calcoli sono fatti su medie di periodo, tagliando le ali per individuare il cuore della tendenza. I rendimenti indicati dallo spread, poi, non si scaricano in modo automatico e immediato sulle previsioni di spesa che vanno traslate sulle scadenze del triennio e sulla curva dei tassi. Tema, quest’ultimo, al centro dei molti botta e risposta con Renato Brunetta (Fi) che hanno accompagnato le due audizioni di Tria alle commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato.
Resta il fatto, però, che le stime più leggere, quelle sul tendenziale, hanno passato in cavalleria l’esame dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Quando hanno letto i nuovi calcoli, che pure rispetto ai programmi di aprile contano 15 miliardi di spesa in più nel 2019-21 (e 1,9 sul 2018), hanno messo lo spread in cima ai «fattori di rischio» che possono mettere in crisi le previsioni governative. Una considerazione, questa, che non entra nella «validazione» vera e propria, limitata al quadro macroeconomico, ma che senza dubbio contribuisce a scaldare la discussione sui numeri.