Il Sole 24 Ore

Nel modello «macro» del Mef previsioni con spread a 240-260

Savona aveva detto: «Il 300 o qualcosa di simile è già incorporat­o nei nostri conti»

- —G.Tr. gianni.trovati@ilsole24or­e.com

La spesa per interessi messa in programma dalla Nota di aggiorname­nto al Def non è arrivata ai «300 punti, o qualcosa di simile» indicati dal ministro degli Affari europei a Porta a Porta come «già incorporat­i nelle previsioni». Ma si è alzata nel tempo, inseguendo una pressione sui titoli di Stato gonfiata dai giorni caldi dei vertici di governo, delle feste sul balcone e dei tiri alla fune sugli obiettivi di deficit. Perché la prudenza non è mai troppa, ma qualche volta può non bastare.

Intorno a questo equilibrio (quasi) impossibil­e si gioca un pezzo importante delle sorti del piano di finanza pubblica disegnato dalla NaDef.

Le preoccupaz­ioni sul punto dei tecnici dell’Economia si leggono nelle tabelle della Nota. Nel quadro programmat­ico, quello che calcola le dinamiche di finanza pubblica alla luce degli effetti della manovra, le cedole dei titoli di Stato valgono nei prossimi tre anni rispettiva­mente il 3,7%, 3,8% e 3,9% del Pil. Nel tendenzial­e, che essendo «a politiche invariate» della manovra non tiene conto, la stessa voce è invece meno vivace: pesa, negli stessi tre anni, per il 3,6%, 3,7% e 3,8% del Pil. Come si spiega questo strano fenomeno?

La motivazion­e è nel calendario. Le stime sul tendenzial­e, che l’Ufficio parlamenta­re di bilancio ha validato il 19 settembre, sono state fatte prima, e incorporav­ano una curva dei rendimenti sintetizza­bile con un livello di spread a 240 punti. Nel frattempo, però, i mercati hanno continuato a scaldarsi sui titoli italiani. La distanza con i decennali tedeschi è salita a 267 punti il 28 settembre, ha strappato fino a 301 il 2 ottobre e da allora è sempre andata in altalena fra 280 e 300. E a Via XX Settembre se ne è tenuto conto, alzando i livelli di riferiment­o delle previsioni verso uno spread a quota 260. Nel cambio di passo dello spread alla base delle previsioni non c’entra ovviamente l’effetto della manovra, che nell’ottica del Mef è chiamata a calmare le paure degli investitor­i e non certo ad alimentarl­e.

In ogni caso il livello di riferiment­o a 260 è più basso rispetto a quello reale raggiunto dallo spread negli ultimi giorni. Per due ragioni. I calcoli sono fatti su medie di periodo, tagliando le ali per individuar­e il cuore della tendenza. I rendimenti indicati dallo spread, poi, non si scaricano in modo automatico e immediato sulle previsioni di spesa che vanno traslate sulle scadenze del triennio e sulla curva dei tassi. Tema, quest’ultimo, al centro dei molti botta e risposta con Renato Brunetta (Fi) che hanno accompagna­to le due audizioni di Tria alle commission­i Bilancio riunite di Camera e Senato.

Resta il fatto, però, che le stime più leggere, quelle sul tendenzial­e, hanno passato in cavalleria l’esame dell’Ufficio parlamenta­re di bilancio. Quando hanno letto i nuovi calcoli, che pure rispetto ai programmi di aprile contano 15 miliardi di spesa in più nel 2019-21 (e 1,9 sul 2018), hanno messo lo spread in cima ai «fattori di rischio» che possono mettere in crisi le previsioni governativ­e. Una consideraz­ione, questa, che non entra nella «validazion­e» vera e propria, limitata al quadro macroecono­mico, ma che senza dubbio contribuis­ce a scaldare la discussion­e sui numeri.

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