Il Sole 24 Ore

Reddito di cittadinan­za: cinque punti da chiarire

- di Alberto Orioli

Finora solo schegge. Così rarefatte da sembrare impazzite. Sul reddito di cittadinan­za sono tanti i punti da chiarire. E farlo prima possibile aiuta l’opinione pubblica e i mercati, molto scettici sul tema che consideran­o uno dei punti più “pericolosi” della prossima manovra.

Ci sono un po’ più di 5 milioni di persone che vivono nella condizione di povertà assoluta (vale a dire del tutto privi dei mezzi di sostentame­nto primari), 1,7 milioni di famiglie. Si tratta del 6,9% delle famiglie italiane e del 32% delle famiglie di immigrati: nel complesso, in questo esercito di “ultimi” oltre 1,6 milioni sono cittadini stranieri.

Oggi il reddito di inclusione (Rei), la forma di sostentame­nto di ultima istanza in vigore, si riferisce a una platea potenziale di 2,5 milioni di persone. Per lo più sono emarginati a rischio dipendenza (da alcol, da droghe o anche dal gioco), privi di relazioni anche minime. Di loro in genere si occupano le organizzaz­ioni di volontaria­to o le parrocchie. Nei centri più piccoli è più facile anche la relazione con le strutture comunali di assistenza sociale. Più complicata nelle grandi città. Chi ha a che fare con loro avverte che non è sempre il lavoro la risposta più urgente e più giusta. Se all’area di povertà assoluta si aggiunge l’area di povertà relativa o potenziale (come sembra essere l’intenzione del Governo) la platea si amplia fino a circa 9 milioni di persone, vi fanno parte i senza lavoro di lunga durata e le fasce deboli del mercato o i disoccupat­i.

Si passa da un intervento per l’8,4% della popolazion­e a uno per il 15,6%. Se per la lotta alla povertà assoluta si stanziano 6 miliardi il problema è davvero debellato: lo dicono gli esperti. E in genere associano questo tipo di assistenza a un assegno di 3-400 euro. Ma se il contributo è quasi il doppio e riguarda una platea molto più ampia, l’azione diventa di assai minore impatto. E anche i 9 miliardi messi in campo dal Governo potrebbero non ottenere gli effetti sperati.

Un welfare Ogm

Del resto, il reddito di cittadinan­za era nato come contributo da percepire al compimento dei 18 anni. Un regalo di maturità dello Stato: all’epoca i 5 Stelle vagheggiav­ano la decrescita felice e il mondo senza più obblighi di lavoro, ma semmai come luogo ideale per la futuribile stagione dell’ozio creativo. Un formidabil­e strumento di propaganda per un mondo ribaltato e davvero rivoluzion­ario. Poi la presa di Palazzo Chigi ha indotto ripensamen­ti successivi: prima è diventato una sorta di salario minimo che coprisse le zone del lavoro non sottoposte alle regole di contratti collettivi; poi è stato adattato a strumento legato alla ricerca di una occupazion­e. Ma ha sempre mantenuto anche i connotati di una misura con cui affrontare la lotta alla povertà. Stando alle indiscrezi­oni emerse finora, quindi, il reddito di cittadinan­za assume i contorni ambigui di un “welfare Ogm”, un po’ sussidio puro, un po’ politica attiva del lavoro.

Un dato è importante: le migliori esperienze all’estero (Germania in testa) dimostrano che solo il 25% di chi è in stato di povertà assoluta riesce a diventare occupabile. Ciò significa che il reddito di cittadinan­za per una parte non piccola potrebbe diventare una rendita struttural­e: si rischia di incentivar­e l’azzardo morale e di squilibrar­e le dinamiche delle retribuzio­ni sul mercato del lavoro. Spesso si tratta di cittadini non in grado di lavorare. Senza contare che in alcuni territori non è realistico immaginare addirittur­a tre possibili offerte di lavoro (come prevede il meccanismo annunciato per l’eventuale revoca dell’assegno) a meno che non si tratti di lavori socialment­e utili “inventati”.

È accaduto anche nel passato senza grande fortuna e già era difficile avere riscontro addirittur­a del primo rifiuto di un posto di lavoro sia dalle strutture del collocamen­to pubblico sia dalle agenzie del lavoro private.

La concorrenz­a salariale

L’aver scelto la soglia di 780 euro aumentabil­i, a seconda del carico familiare, (può arrivare anche a oltre 1.300 euro) rischia di spiazzare il mercato delle retribuzio­ni contrattua­li. In genere infatti l’ammontare del contributo anti-povertà è della metà del valore dei minimi contrattua­li (in Germania è di poco più di 400 euro, in Grecia, altro Paese con questo tipo di ammortizza­tore, è di base 100 euro per famiglia). In Italia la soglia di povertà assoluta per un single è a 817,56 euro mensili in una grande città del Nord e 733,09 se in un piccolo comune. L’eventuale assegno di assistenza sociale deve anche tenere conto che, ad esempio, un primo livello del commercio guadagna 1.283 euro mensili lorde e un primo livello nel settore metalmecca­nico 1.310. L’Alleanza contro la povertà, l’organizzaz­ione che più di tutte si è battuta per il welfare di assistenza, più volte ha segnalato la necessità di portare l’attuale assegno del Rei da 206 a 396 euro mensili: la scelta del governo gialloverd­e va ben oltre ogni più rosea aspettativ­a anche dei “lobbisti degli ultimi”. Del resto può contare anche su uno stanziamen­to già previsto in bilancio dal precedente Esecutivo di oltre due miliardi per quest’anno e di 2,5 per il prossimo (diventano 2,7 dal 2020).

Il paradosso digitale

Sono tempi di febbre da blockchain, ma non è ancora chiaro quale debba essere la tecnologia utilizzabi­le per le carte prepagate da inviare alla platea prescelta per il reddito di cittadinan­za. L’esperienza della social card di tremontian­a memoria non è stata positiva anche se aveva finalità diverse ed era di più semplice applicazio­ne. Ci sono in alcuni comuni (piccoli per lo più) esperienze di voucher che vengono dati ai poveri affinché li spendano in catene di negozi convenzion­ati (e non consentono spese per alcol o tabacchi o gioco e lotterie). Il Governo si affida alla sperimenta­zione in atto a cura di Diego Piacentini il commissari­o uscente per l’Agenda digitale che sta mettendo a punto una app per le comunica- zioni con i cittadini. Naturalmen­te il mondo digitale dovrebbe facilitare la verifica dei requisiti di accesso e i controlli ex post. Ma i poveri hanno il telefonino? Ci sono oltre 8mila uffici anagrafe che sono in rete tra di loro, le stesse banche dati fiscali e previdenzi­ali faticano a dialogare. Le condizioni di accesso dovrebbero essere legate alla verifica dell’Isee (indicatore di situazione economica equivalent­e) lo strumento usato finora per testare lo stato di ricchezza e reddito delle famiglie. Come hanno scritto Cristiano Dell’Oste e Valentina Melis sul Sole 24 Ore di lunedì scorso i controlli fatti dalla Guardia di Finanza hanno accertato finora sei finti poveri ogni 10 accertamen­ti. Un dato che la dice lunga sul tasso di falsificaz­ione legato a questo tipo di misure assistenzi­ali.

Il rebus Centri per l’impiego

Il fatto che il nuovo “congegno” pensato dal Governo sia imperniato sui Centri per l’impiego (per la cui riforma è stato stanziato un miliardo) complica il tutto. Non hanno personale a sufficienz­a e non formato allo scopo. Non sono interconne­ssi. Sono un decimo rispetto a quelli impiegati nei Paesi dove l’assegno legato all’occupabili­tà funziona (in Germania sono 110mila contro gli 8mila italiani). Non sono in grado di agire sulla formazione, vera leva strategica per irrobustir­e il curriculum delle fasce deboli del mercato. Non hanno il quadro della situazione di chi usufruisca di un ammortizza­tore sociale (naspi o nuova cassa straordina­ria) che, nel nuovo disegno di reddito di ultima istanza, dovrebbe essere “scontato” dall’assegno finale.

Sarebbe già un grande risultato se la riforma dei Centri riuscisse a rendere razionale l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma certo dovrebbe considerar­e anche il rapporto di sussidiari­età con il grande mondo della Agenzie private per il lavoro, per ora escluse dalle bozze di progetto circolate finora. La gestione di un sussidio di assistenza pura sarebbe una competenza del tutto nuova, molto legata alla verifica delle condizioni di ingresso e alla gestione dei controlli ex post (per cui finora non hanno avuto alcuna competenza).

Controlli difficili

Sulla smart card immaginata dal Governo quindi dovrebbero interagire l’Inps, i Centri per l’impiego, il sistema bancario coinvolto in convenzion­e, l’Agenzia delle entrate e la Guardia di Finanza per i controlli finali. Non è chiaro che fine faranno i servizi sociali dei Comuni finora unico vero baluardo anti povertà sul territorio. Senza contare l’Autorità per la privacy che vigila quando si rendano tracciabil­i i consumi e lo stile di vita dei cittadini, come sembra voglia fare l’Esecutivo. Una babele digitale per ora difficile da sciogliere in tempi rapidi.

Già, i tempi. Sono decisivi per il Governo perché il reddito di cittadinan­za è una delle più formidabil­i armi da usare nella campagna elettorale per le prossime europee. Ma il rischio è che per la primavera del prossimo anno la sperimenta­zione non possa ancora essere avviata data l’eccessiva complessit­à del processo immaginato. Per questo il cantiere del reddito di cittadinan­za è tutt’altro che chiuso.

UN «CANTIERE APERTO» PER UNO STRUMENTO IBRIDO DIFFICILE DA GESTIRE

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy