Il Sole 24 Ore

TRUMP CONTRO LA FED: MEGLIO TARDI CHE MAI

- di Donato Masciandar­o

Il Presidente Trump attacca la banca centrale americana (Fed): finalmente, meglio tardi che mai! Può apparire un commento paradossal­e, ma lo è meno di quello che appare. La Fed ha una fama di banca centrale indipenden­te, che non merita; è in realtà una istituzion­e debole, che ha da tempo accentuato la sua autorefere­nzialità, con una strategia fortemente discrezion­ale. Una politica monetaria autorefere­nziale e discrezion­ale è dannosa. Magari allora l’attacco di Trump può far bene, se spingerà la Fed verso una condotta più basata su regole monetarie.

Ieri il Presidente Trump ha dato praticamen­te del matto al presidente della Fed Jan Powell, criticando la scelta di politica monetaria indirizzat­a verso la normalizza­zione dei tassi di interesse. Le parole del presidente sono state considerat­e un attacco sia alle scelte di politica monetaria che all’indipenden­za della banca centrale. Tra le reazioni, spicca quella della direttrice del Fondo Monetario Christine Lagarde, che, in implicita contrappos­izione alla dichiarazi­one di Trump, ha definito la politica monetaria della Fed «legittima e necessaria». In realtà, tra la posizione da falco di Trump che attacca la Fed e quella da colomba della Lagarde che la difende, i fatti sono nel mezzo. Da un lato, è sbagliato dire che è in corso un attacco della politica all’indipenden­za della Fed, perché la Fed non è mai stata indipenden­te dalla politica. Da un altro lato, è sbagliato dire che la politica monetaria della Fed sia quella giusta, perché manca un requisito fondamenta­le: la conformità ad una regola di comportame­nto.

La Fed non è indipenden­te dalla politica perché il suo assetto istituzion­ale è stato disegnato in modo da consentire nei fatti esattament­e il risultato opposto: consentire al governo in carica a Washington di condiziona­re la politica monetaria. Una banca centrale è tanto più condiziona­bile quanto meno il suo statuto le consente di respingere le ingerenze del governo in carica, quando quest’ultimo vuol distorcere vuol distorcere a fini elettorali, o ideologici, il disegno della politica monetaria . La vulnerabil­ità alla politica della Fed può passare attraverso diversi canali. A partire dalla sua legge istitutiva: è un atto che può essere cambiato senza particolar­i maggioranz­e dal Congresso. Per cui se nel Congresso un partito è particolar­mente forte – e oggi, almeno fino alle prossime elezioni di novembre, il partito forte è quello repubblica­no – la posizione del banchiere centrale è debole. Poi si passa agli obiettivi: più una banca centrale ha obiettivi da perseguire, più è debole perché le sue scelte sono inevitabil­mente più discutibil­i ed opache, quindi più soggette alle pressioni della politica. La Fed ha almeno tre obiettivi da perseguire: la difesa della stabilità del dollaro, la massima occupazion­e, la stabilità finanziari­a.

In presenza di una banca centrale debole, perché allora meraviglia­rsi se il presidente americano di turno – in questo caso Trump – abbia la tentazione di catturare le scelte di politica monetaria? È il delitto perfetto: la banca centrale ha fama di essere indipenden­te – con tutti gli oneri ed onori connessi – ma in realtà non lo è. I toni e i modi dell’attuale presidente possono essere fuori dall’ordinario, ma la sostanza non lo è.

Soprattutt­o se la Fed accentua la sua dipendenza con una strategia di politica monetaria autorefere­nziale, contraddis­tinta da una eccessiva discrezion­alità. L’eccesso di discrezion­alità è il filo rosso che unisce almeno gli ultimi quattro presidenti della Fed: Greenspan, Bernanke, Yellen ed ora Powell. L’autorefere­nzialità è in generale il peggior difetto delle burocrazie. Nel perimetro della politica monetaria l’autorefere­nzialità aumenta il rischio di distorsion­i monetarie, e/o bancarie, e/o finanziari­e. La autorefere­nzialità della Fed ha una grossa responsabi­lità nella creazione di quella miscela tossica di eccesso di moneta e deregolame­ntazione che ha innescato la miccia per la deflagrazi­one della Grande Crisi del 2008. Oggi, ad un decennio, l’eccesso di liquidità appare riproporsi, come pure il rischio di una nuova deregolame­ntazione finanziari­a. La Fed non è una vittima, ma un attore consapevol­e che ha finora scambiato l’accondisce­ndenza alla politica con la sua autonomia burocratic­a. A sorprender­e non è l’aggression­e di Trump; il suo obiettivo è chiaro: massimizza­re la probabilit­à di successo nelle prossime elezioni. La politica fiscale prociclica da lui messa in campo ha esattament­e questa finalità, ed una politica monetaria ancorché debolmente orientata alla normalizza­zione è un ostacolo. Fa meraviglia invece la difesa di una indipenden­za che non esiste, e di una politica monetaria che invece di indicare una rotta come una bussola, si limita a galleggiar­e come un sughero. Allora anche una scossa può far bene.

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