TRUMP CONTRO LA FED: MEGLIO TARDI CHE MAI
Il Presidente Trump attacca la banca centrale americana (Fed): finalmente, meglio tardi che mai! Può apparire un commento paradossale, ma lo è meno di quello che appare. La Fed ha una fama di banca centrale indipendente, che non merita; è in realtà una istituzione debole, che ha da tempo accentuato la sua autoreferenzialità, con una strategia fortemente discrezionale. Una politica monetaria autoreferenziale e discrezionale è dannosa. Magari allora l’attacco di Trump può far bene, se spingerà la Fed verso una condotta più basata su regole monetarie.
Ieri il Presidente Trump ha dato praticamente del matto al presidente della Fed Jan Powell, criticando la scelta di politica monetaria indirizzata verso la normalizzazione dei tassi di interesse. Le parole del presidente sono state considerate un attacco sia alle scelte di politica monetaria che all’indipendenza della banca centrale. Tra le reazioni, spicca quella della direttrice del Fondo Monetario Christine Lagarde, che, in implicita contrapposizione alla dichiarazione di Trump, ha definito la politica monetaria della Fed «legittima e necessaria». In realtà, tra la posizione da falco di Trump che attacca la Fed e quella da colomba della Lagarde che la difende, i fatti sono nel mezzo. Da un lato, è sbagliato dire che è in corso un attacco della politica all’indipendenza della Fed, perché la Fed non è mai stata indipendente dalla politica. Da un altro lato, è sbagliato dire che la politica monetaria della Fed sia quella giusta, perché manca un requisito fondamentale: la conformità ad una regola di comportamento.
La Fed non è indipendente dalla politica perché il suo assetto istituzionale è stato disegnato in modo da consentire nei fatti esattamente il risultato opposto: consentire al governo in carica a Washington di condizionare la politica monetaria. Una banca centrale è tanto più condizionabile quanto meno il suo statuto le consente di respingere le ingerenze del governo in carica, quando quest’ultimo vuol distorcere vuol distorcere a fini elettorali, o ideologici, il disegno della politica monetaria . La vulnerabilità alla politica della Fed può passare attraverso diversi canali. A partire dalla sua legge istitutiva: è un atto che può essere cambiato senza particolari maggioranze dal Congresso. Per cui se nel Congresso un partito è particolarmente forte – e oggi, almeno fino alle prossime elezioni di novembre, il partito forte è quello repubblicano – la posizione del banchiere centrale è debole. Poi si passa agli obiettivi: più una banca centrale ha obiettivi da perseguire, più è debole perché le sue scelte sono inevitabilmente più discutibili ed opache, quindi più soggette alle pressioni della politica. La Fed ha almeno tre obiettivi da perseguire: la difesa della stabilità del dollaro, la massima occupazione, la stabilità finanziaria.
In presenza di una banca centrale debole, perché allora meravigliarsi se il presidente americano di turno – in questo caso Trump – abbia la tentazione di catturare le scelte di politica monetaria? È il delitto perfetto: la banca centrale ha fama di essere indipendente – con tutti gli oneri ed onori connessi – ma in realtà non lo è. I toni e i modi dell’attuale presidente possono essere fuori dall’ordinario, ma la sostanza non lo è.
Soprattutto se la Fed accentua la sua dipendenza con una strategia di politica monetaria autoreferenziale, contraddistinta da una eccessiva discrezionalità. L’eccesso di discrezionalità è il filo rosso che unisce almeno gli ultimi quattro presidenti della Fed: Greenspan, Bernanke, Yellen ed ora Powell. L’autoreferenzialità è in generale il peggior difetto delle burocrazie. Nel perimetro della politica monetaria l’autoreferenzialità aumenta il rischio di distorsioni monetarie, e/o bancarie, e/o finanziarie. La autoreferenzialità della Fed ha una grossa responsabilità nella creazione di quella miscela tossica di eccesso di moneta e deregolamentazione che ha innescato la miccia per la deflagrazione della Grande Crisi del 2008. Oggi, ad un decennio, l’eccesso di liquidità appare riproporsi, come pure il rischio di una nuova deregolamentazione finanziaria. La Fed non è una vittima, ma un attore consapevole che ha finora scambiato l’accondiscendenza alla politica con la sua autonomia burocratica. A sorprendere non è l’aggressione di Trump; il suo obiettivo è chiaro: massimizzare la probabilità di successo nelle prossime elezioni. La politica fiscale prociclica da lui messa in campo ha esattamente questa finalità, ed una politica monetaria ancorché debolmente orientata alla normalizzazione è un ostacolo. Fa meraviglia invece la difesa di una indipendenza che non esiste, e di una politica monetaria che invece di indicare una rotta come una bussola, si limita a galleggiare come un sughero. Allora anche una scossa può far bene.