Per i commercialisti la flat tax è un boomerang
Il regime penalizza chi investe, ha beni strumentali, si associa e fa assunzioni
La flat tax al 15% per i professionisti con soglia a 65mila euro ha effetti su una platea troppo ristretta (poco più dell’1 % dei contribuenti), e rischia anche ripercussioni anticicliche sui redditi fino a 100 mila euro - area in cui converrebbe addirittura ridurre il fatturato. Di fronte a un trend mondiale di politiche fiscali molto aggressive - Usa in testa- è forse più il caso oggi di puntare ai “massimi” contribuenti (iniziando dal digitale) piuttosto che ai “minimi” , per i quali tornerebbero invece utili strumenti già visti 15 anni fa ( il reddito incrementale biennale).
Dalla platea dei commercialisti riuniti ad Agrigento per una due giorni di dibattito sul tema più d’attualità, spuntano proposte e qualche appuntita riflessione, con la massima attenzione però ad evitare le insidiose trappole dei saldi di finanza del Def. Il presidente del Cndcec, Massimo Miani, nella tavola rotonda che ha aperto i lavori, oltre a rilanciare l’alert sulla fattura elettronica («sarebbe servita un’introduzione graduale che però nemmeno la nuova maggioranza ha voluto prendere in considerazione, a questo punto la moratoria sulle sanzioni è il minimo sindacale che la politica dovrà concedere (uno sconto sulle sanzioni è previsto nella bozza del Dl fiscale, ndr)»), sottolinea i rischi di una flat a partenza silenziata e differenziata. «Senza la rimozione dei vincoli sulla partecipazione a società o associazioni professionali - ha detto Miani - sui tetti di spesa per dipendenti e collaboratori e sui tetti di investimento in beni strumentali, questo ampliamento del regime dei minimi premierà, anche a parità di fatturato, le piccole partite Iva che non si aggregano, che non assumono e che non investono, mentre penalizzerà le piccole partite Iva che lo fanno». Anche con questi accorgimenti non mancheranno comunque, a parere dei commercialisti, «rischi di effetti collaterali dannosi». Secondo i calcoli della categoria, illustrati da Miani, «un libero professionista con fatturato di 65mila euro e costi nell’ordine del 22% del suo fatturato pagherà imposte sul reddito per 7.605 euro, cioè l’11,7 per cento. Un professionista con la medesima struttura di costi, ma con un fatturato di 66mila euro, pagherà imposte per 18.856 euro, il 27,4%, cioè due volte e mezzo in più».
Della necessità di una riforma globale del sistema fiscale ha parlato Maurizio Leo, ricordando che 2/3 del contenzioso civile in Cassazione è tributario, che la riscossione è in difficoltà e che in materia di controlli il 40 % riguarda le grandi aziende, il 15% quelle medie e solo l’1,5 % le persone fisiche e i professionisti. Sulla pacificazione fiscale Leo ha ricordato che è stata cavallo di vari governi, compreso l’ultimo e che la questione non è tanto e solo etica ma «di far emergere quei 150 miliardi ancora occultati tra cassette in Italia e in hotel oltrefrontiera», e che non meno urgente è riformare la giustizia fiscale e ancor prima il diritto sostanziale «per il quale serve un anno di lavoro di un buon pool di giuristi e tributaristi». E, sullo sfondo, non perdere di vista il tema del digitale, «visto che oggi non c’è più una stabile organizzazione su cui innestare la pretesa impositiva, ma piuttosto si deve tassare là dove si crea ricchezza».