Il Sole 24 Ore

Taglio del debito appeso all’incrocio fra spread e Pil

Il tasso di interesse implicito sarebbe sotto il Pil nominale. Ma non succede dal 1988

- Gianni Trovati gianni.trovati@ilsole24or­e.com © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Alla base del percorso di riduzione del debito/Pil messo in programma dalla NaDef e rilanciato ieri da Tria a Bali ci sono due scommesse, concatenat­e fra loro. Non solo la crescita ambiziosa del Pil nominale, che ha causato la mancata validazion­e dell’Ufficio parlamenta­re di bilancio e le obiezioni di Bankitalia; ma anche una spesa per interessi che, pure in rialzo rispetto alle vecchie previsioni, resta molto sotto ai livelli di spread degli ultimi giorni (si veda Il Sole 24 Ore di mercoledì). Se entrambe queste condizioni fossero confermate dalla realtà, l’incrocio “virtuoso” fra crescita e tassi di interesse aiuterebbe a spingere in basso il rapporto fra debito e Pil. E sarebbe una notizia. Perché non succede dal 1988, quando il Pil italiano correva a ritmi superiori al 4% e un’inflazione sopra il 5% dava una mano a limare il debito.

La storia dell’incrocio fra i due valori, insieme alla sua evoluzione disegnata dalle previsioni della Nota di aggiorname­nto al Def, è scritta in un’analisi che sarà pubblicata oggi dall’Osservator­io sui conti pubblici italiani della Cattolica diretto da Carlo Cottarelli. La questione ha l’apparenza del dettaglio tecnico, ma la sua sostanza punta dritto al cuore dei risultati di politica economica. Nel 20172018, per esempio, nonostante un deficit in discesa dal 2,4% all’1,8% (giusto le stesse cifre che ora il governo vuole raggiunger­e nei prossimi tre anni), un saldo primario di conseguenz­a in salita e una crescita superiore alla nostra media anemica (1,6% nel 2017, 1,2% nel 2018), il debito/Pil è rimasto praticamen­te fermo, perdendo solo cinque decimali in due anni (dal 131,4% di fine 2016 al 130,9% previsto come consuntivo 2018). E la ragione è proprio nel «tasso di interesse implicito», calcolato come rapporto tra la spesa per interessi dell’anno e il debito dell’anno precedente. Il valore è stato intorno all’1% più alto del tasso di crescita nominale, e ha fermato la riduzione del peso del debito.

La differenza di ritmo fra interessi e prodotto è del resto uno dei termometri più sensibili ai problemi di finanza pubblica. E aiuta anche a spiegare come mai la stretta fiscale del 2012 non si sia tradotta in una riduzione immediata del debito/Pil. Quell’anno, complice lo spread spinto dalla crisi sistemica di Italia, Spagna e Grecia, questa distanza si impennò fino al 6%, gonfiando l’incidenza del debito sul Pil. Era andata peggio solo nel 2009, anno della prima recessione, e nel 1992-93, all’epoca dell’ultima svalutazio­ne della lira.

E ora? Il «sentiero di riduzione del debito» rilanciato anche ieri da Tria dipende da un Pil nominale a l+3,1% e da uno spread una 50ina di punti sotto i livelli raggiunti ieri. Con un differenzi­ale che si stabilizza a 300, calcola sempre l’Osservator­io diretto da Cottarelli, supererà i programmi scritti nel Def di 6 miliardi nel 2019 e di 10 l’anno successivo. Con tanti saluti alla ripresa del Pil, e alla discesa del debito.

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L’ANALISI Carlo Cottarelli­direttore dell’Osservator­io sui Conti pubblici italiani dellaCatto­lica

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