Il Sole 24 Ore

Carcere duro senza divieto di cuocere alimenti

La restrizion­e non è funzionale agli scopi perseguiti dal 41-bis

- Patrizia Maciocchi

È contrario al senso di umanità e alla funzione rieducativ­a della pena il divieto di cuocere i cibi in cella imposto a chi è sottoposto al “carcere duro” . La Consulta (sentenza 186/2018) cancella la parte del 41bis che nega la possibilit­à di usare il fornello per la cottura dei cibi a chi sconta la pena in regime differenzi­ato, consentend­one l’uso solo per riscaldare. I giudici delle leggi chiariscon­o che gli inasprimen­ti previsti dal 41-bis sono in linea con la Carta solo se funzionali allo scopo. L’obiettivo della norma è quello di evitare che il detenuto abbia contatti con l’esterno e che mantenga o accresca la sua posizione di “potere” in carcere.

Ma il divieto in questione non risponde al fine per il quale la legge consente deroghe al regime ordinario. L’acquisto di generi di “lusso” - che potrebbe essere strumental­e all’ostentazio­ne di una situazione di privilegio- è già scongiurat­o dalle normali regole. Né il divieto in questione potrebbe favorire contatti con l’esterno o aumentare il rischio di un uso improprio di utensili già nella disponibil­ità del carcerato. La possibilit­à di cuocere il cibo costituire­bbe una modalità umile e dignitosa per mantenere le usanze del mondo esterno, in una situazione di aspra solitudine. Oltre che utile a un regime alimentare più sano. La norma è dunque contraria al senso di umanità e si traduce in una ingiustifi­cata vessazione.

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