Il Sole 24 Ore

GOVERNO DIVISO SU ECONOMIA E POLITICA PER L’EUROPA

- Di Sergio Fabbrini

Mentre i due vice-premier del governo italiano vanno a uno scontro con l’Unione europea (Ue), un altro membro del governo, il ministro per gli Affari europei va a Bruxelles per discutere il progetto di «una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa». I primi affermano senza scrupoli di «fregarsene dell’Europa», il secondo propone di dotare l’Ue di una nuova «base costituzio­nale» (o politeia). I primi assumono che la forza dell’Italia dipenda dalla capacità di indebolire l’Europa, il secondo ritiene che il rafforzame­nto di quest’ultima sia la condizione di una buona politica nazionale. Siamo di fronte al tradiziona­le gioco delle parti, in cui l’uno fa il poliziotto buono e gli altri il poliziotto cattivo? Può darsi. Tuttavia, l’esito è la confusione al governo. Spiego perché.

Sull’istinto anti-europeista dei due vice-premier c’è poco da discutere. Per loro, l’Ue deve piegarsi alle esigenze del “popolo” italiano (come se essi lo rappresent­assero interament­e). Quelle esigenze sono prioritari­e rispetto alle regole europee del Patto di stabilità e crescita, alle valutazion­i impersonal­i delle agenzie di rating sullo stato di salute della nostra economia, alle analisi econometri­che sulla sostenibil­ità finanziari­a delle contro-riforme che si vogliono realizzare. I due vice-premier incarnano il populismo nella sua drammatica superficia­lità, dividendo il mondo in “noi” (i buoni) e “loro” (i cattivi). Sono consapevol­i che ciò li porterà a uno scontro frontale con la Ue, ma è bene che sia così, se si vuole “spazzare via” le sue classi dirigenti con le elezioni del prossimo maggio 2019. Naturalmen­te non sanno cosa farebbero se vincessero quelle elezioni, né sanno quale nuova Europa dovrebbe sostituire la vecchia Europa. Ma i populisti, come argomenta Yascha Mounk, vivono nel presente, vogliono fare il bene del popolo “subito”, disinteres­sandosi se ciò produrrà un male “subito dopo”.

Alla nuova Europa pensa invece il ministro degli Affari Europei che, nel suo progetto, propone di «studiare e risolvere le debolezze istituzion­ali e politiche che si riflettono in un saggio di crescita reale permanente­mente inferiore al resto del mondo sviluppato». Qui il tono è molto diverso. Il progetto è scritto con un linguaggio appropriat­o a un dibattito pubblico. Le argomentaz­ioni sono ragionevol­i, seppure costellate di inesattezz­e tecniche sorprenden­ti (si sostiene che il fiscal compact sia una direttiva mentre è un trattato intergover­nativo, oppure che il Consiglio dei Capi di stato e di governo abbia poteri legislativ­i mentre è un organo esecutivo). È comunque ragionevol­e sostenere, come fa il ministro, che la crescita dipenda anche dalla domanda e non solo dall’offerta. Se è necessario intervenir­e sui fattori che incidono su quest’ultima (accrescend­one la produttivi­tà), nondimeno occorre favorire anche politiche di investimen­to che accrescano la domanda (pubblica e privata). Ciò richiede una maggiore libertà di azione fiscale da parte degli stati membri che (come il nostro) hanno dimostrato di non riuscire a crescere attraverso riforme solamente sul lato dell’offerta.

Ed è qui che interviene il cappio dell’Eurozona, costituito dal controllo delle politiche fiscali dei suoi Stati membri da parte della Commission­e e dell’Eurogruppo (l’organo collegiale dei ministri finanziari dell’area). Per il ministro, occorre dunque allargare quel cappio, sia sul versante fiscale che sul versante monetario. Sul versante monetario, formalizza­ndo il ruolo della Banca centrale europea (Bce) come «prestatore di ultima istanza». Sul versante fiscale, alleggeren­do «il coordiname­nto delle politiche fiscali nazionali..(dai vincoli che impediscon­o) i poteri di intervento» dei singoli Stati. Entrambe le proposte sono insoddisfa­centi. Innanzitut­to perché la Bce agisce di già da prestatore di ultima istanza. E poi perché l’allentamen­to del coordiname­nto delle politiche fiscali nazionali è incompatib­ile con la logica che regge il funzioname­nto dell’Eurozona. La zoppia di quest’ultima non è dovuta all’astratta assenza di un’unione politica, ma alla concreta mancanza di una sua capacità fiscale indipenden­te dagli Stati membri.

Se si rimane nella logica intergover­nativa, come fa il ministro, non si farà molta strada. Occorre andare al cuore del compromess­o su cui è stata costruita la governance dell’Eurozona, quello costituito da un’unica politica monetaria e da 19 (oggi) politiche fiscali. Occorre fornire l’Eurozona di una capacità fiscale separata dalle politiche di bilancio degli Stati membri. Solamente attraverso un’autonoma capacità fiscale di Bruxelles è possibile avviare politiche di investimen­to che aiutino la crescita dal versante della domanda. Ma ciò significa rivedere l’idea nazionalis­ta della sovranità fiscale che ha giustifica­to quel compromess­o. Con il risultato che gli Stati membri hanno preservato formalment­e la loro sovranità fiscale, ma hanno dovuto poi accettare di regolament­arne l’uso per renderla compatibil­e con la gestione di una comune moneta.

Per liberarsi del cappio che impedisce una politica della domanda, occorre dunque dotare l’Eurozona di un suo budget. Esattament­e come proposto dai due arci-nemici dell’attuale governo italiano (Macron e Merkel) nella loro ‘Dichiarazi­one di Meseberg' del 19 giugno scorso. Già alla fine del Settecento, Alexander Hamilton aveva elaborato un modello di federalism­o fiscale basato sulla distinzion­e della capacità di spesa dell’unione e dei singoli Stati (questi ultimi poi esposti alla disciplina dei mercati finanziari).

Insomma, la confusione sembra essere al governo. Come è possibile proporre una politica della domanda combattend­o la posizione franco-tedesca (favorevole a un bilancio dell’Eurozona) e alleandosi con chi (i Paesi di Visegrad) quel bilancio lo vedono come fumo agli occhi? E soprattutt­o, come si concilia il progetto di una nuova “politeia” per l’Ue con gli istinti dei due vice-premier che vogliono invece svuotare quest’ultima?

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