«Corporate China» in Italia: 641 aziende e 32.600 dipendenti
Dopo le ultime operazioni (le acquisizioni di Moto Morini e Candy) presenti oltre 300 gruppi cinesi con un giro d’affari di 22 miliardi - Marchi e manifattura ad alto contenuto tecnologico valorizzati con investimenti mirati
Un solo bilancio, luglio 2017-giugno 2018, e 126 milioni di perdite, 53 in più dell’anno precedente, il record della storia del Milan. È questa la polpetta avvelenata che la gestione del misteriosissimo cinese Yonghong Li lascia al Fondo Elliot che ha rilevato il club rossonero l’estate scorsa. Un disastro cinese. Un caso isolato o una consuetudine dei gruppi di Pechino che in Italia controllano 641 società?
L’ultima bandierina cinese in Italia è stata piantata nel Pavese: la Zhongneng Vehicle Group ha acquisito Moto Morini, storico marchio delle due ruote specializzato nei veicoli di piccola cilindrata. Quasi in contemporanea, a Monza, Haier, la multinazionale dell’elettrodomestico ha conquistato la gloriosa Candy, pioniera italiana del settore. Oggi sono 641 le imprese italiane controllate da trecento gruppi cinesi o di Hong Kong (quasi tutti a capitali cinesi). Dal Duemila i gruppi dei due Paesi hanno investito in Italia 16,2 miliardi di euro, terza meta in Europa dopo Gran Bretagna e Germania. Società statali che hanno acquisito grandi gruppi italiani, da ChemChina-Pirelli a Shanghai Electric-Ansaldo Energia, da Weichai-Ferretti a State Grid Corporation-Cdp Reti. Imprese private che hanno preso il controllo di aziende manifatturiere e di servizi. Da Suning-Inter a Grandland-Permaesteelisa a Zoomlion-Cifa. Operazioni finanziarie di Safe (l’agenzia statale che regola le partecipazioni), generalmente sotto il 2% del capitale. Una campagna che potrebbe continuare con Alitalia il cui dossier è stato sottoposto alle autorità cinesi dal sottosegretario Michele Geraci in un recente viaggio in Cina. L’ipotesi allo studio sarebbe quella di una partecipazione da parte di una compagnia cinese per fare dei Alitalia il vettoreponte per l’Africa.
A ogni acquisizione suona il campanello d’allarme sui rischi di colonizzazione o di cattiva gestione e trasferimento di tecnologie in Cina. Sul rischio di colonizzazione, gli allarmi sembrano esagerati: il giro d’affari delle società italiane controllate da soci cinesi e di Hong Kong è di 22 miliardi, i dipendenti sono 32.600 e le partecipazioni rappresentano il 3,1% del totale delle imprese a partecipazione estera (con l’1,9% dei dipendenti). Il trasferimento tecnologico, invece, è un tema sul tappeto. Il Piano strategico del Governo “China 2025” prevede che nel 2049, in occasione del centenario della Rivoluzione, Pechino diventi la prima manifattura globale. Per questo è rallentata l’acquisizione di società di servizi (il calcio in primis) ed è aumentata la caccia alla manifattura hi-tec. Italia e Germania sono i terreni di caccia migliore e danno la possibilità di creare mini-poli territoriali specializzati.
Solo l’anno scorso, per esempio, in Piemonte, Baosteel ha acquisito il controllo di Emarc, azienda della subfornitura automobilistica partner di Fca e di Renault; Power China Northwest ha acquisito Geodata, impresa attiva in tutto il mondo nel mercato dell’ingegneria ambientale; Crc, il più grande costruttore mondiale di materiale rotabile, con Cmc, colosso delle infrastrutture, ha preso l’80% della Blue Engineering di Rivoli, società specializzata nella progettazione di veicoli ferroviari. L’obiettivo è di mettere in rete le competenze per creare in Piemonte un polo cinese della mobilità. Analogamente in Emilia Romagna è stato creato un mini-distretto della meccanica agricola intorno ad Arbos, controllata dalla cinese Lovol con in pancia la storica Goldoni e la friulana MaterMecc. Mentre l’acquisizione della forlivese Ferretti da parte di Weichai, datata 2012, ha rivitalizzato undici marchi della cantieristica specializzata in yacht e motoscafi (da Azimut a Riva) in profondissima crisi.
Un caso di scuola per la governance alla cinese. «Sono stato cooptato nel cda a ottobre 2013 e nel maggio 2014 sono diventato amministratore delegato», racconta Alberto Galassi. «Il mandato è stato chiaro fin dal principio: l’azionista detta le linee strategiche e il management si occupa dello sviluppo e della gestione. Così è stato, senza alcuna sbavatura, con la massima correttezza».
Una governance, sottolinea Galassi, tipica di un grande gruppo industriale con 50 miliardi di dollari di attività nel mondo. «Il focus dell’azionista è su strategie, investimenti e controllo. Ogni mese inviamo un report dettagliatissimo sulle attività e i risultati. Ma decidiamo in perfetta autonomia, la gamma, le linee, lo stile i materiali. Il nostro compito è chiaro: si deve valorizzare il made in Italy in maniera totale. La produzione è completamente in Italia dove costruiremo un nuovo cantiere. Nel 2018 abbiamo investito 54 milioni». Nel 2013, Ferretti era in
profondissima crisi. Dopo due anni
di assestamento, grazie a 154 milioni di investimenti, il fatturato è passato dai 415 milioni del 2015 ai 704 milioni del 2018. L’ebitda da 7 milioni del 2015 (primo esercizio con marginalità positiva) a 59 milioni del 2017. I dipendenti, tutti in Italia, si avviano a diventare 1.600.
Pochi chilometri a Ovest di Forlì, a Migliarina di Carpi, in provincia di Modena, c’è la sede del gruppo Arbos, controllato dalla cinese Lovol. Un piccolo polo della meccanica agricola nato con l’acquisizione di Arbos e MaterMacc nel 2014 e di Goldoni nel 2015. «L’obiettvo fin dal principio – dice il vicepresidente Andrea Bedosti – è stato di connettere il know-how italiano e la capacità di investimento e la lungimiranza cinese». Management italiano che lavora in autonomia gestionale, indirizzo strategico e controllo cinese. L’ambizione è quella di creare un gruppo capace di integrare conoscenze agronomiche, meccaniche ed elettroniche. Due stabilimenti, ma soprattutto un centro ricerche e uno stabilimento, sempre a Carpi, in cui verranno progettati, sviluppate e testate le nuove macchine che verranno prodotte in tutto il mondo. Gli obiettivi di mercato sono ambiziosi, soprattutto se si considera che nel 2014 i marchi erano in declino: nel 2020 il fatturato dovrebbe attestarsi a 210 milioni contro i 25 del 2015. La chiave? La ricerca, con investimenti intorno all’8% del fatturato.
Ecco perché i passaggi a vuoto si contano sulle dita di una mano: il Pavia calcio, l’azienda metalmeccanica Colgar di Cornaredo. La selezione dell’investimento è la chiave. Candy e Morini sono nella linea di continuità: manifattura, marchi, potenziale. La fase quantitativa che negli ultimi cinque anni ha quasi raddoppiato gli investitori e le imprese acquisite e triplicato dipendenti e fatturato è archiviata. La parola d’ordine adesso è tecnologia e qualità.