«Commedia» giovane e spericolata
700 anni dopo. In libreria un’edizione del poema rinnovata nel testo e nel commento. E un saggio che inquadra il Dante determinato a imporre giustizia e misericordia. Due modi nuovi di leggere il grande affresco letterario
Èsempre una festa quando esce una nuova importante edizione della Com
media di Dante, tanto più quando ci si avvicina al settimo centenario della morte del Poeta, nel 2021, e quando quell’edizione viene pubblicata insieme a un libro innovativo, che avvicina il poema a noi. Il «Diamante» della Salerno, infatti, è l’editio minor di quella che uscirà per il centenario nella NECOD (Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante): alla quale mancano soltanto il Convivio e, appunto, la Commedia per raggiungere il completamento.
Ci si domanderà se una nuova edizione del maggior poema del Medioevo sia necessaria ogni cinquant’anni. Il curatore della presente ha risposto da par suo con una serie di saggi poi riuniti in volume recente, Per una nuova edizione commentata della «Divina Commedia», e a quello rimando perché un foglio domenicale non è luogo per filologia spinta. Si deve pensare, però, che un’edizione critica del poema non esiste, in primo luogo perché non abbiamo alcun autografo dantesco, e poi perché la tradizione manoscritta è piena di errori, talvolta considerevoli. In occasione dell'ultimo centenario nel 1965, Giorgio Petrocchi diede vita all’ottimo testo della Commedia
secondo l'antica vulgata, che già dal titolo dichiara il suo forzato limite. È questa la base fondamentale dell’edizione di Enrico Malato. Ma un testo migliore è sempre possibile, e alcune delle soluzioni adottate qui lo dimostrano. Basta pensare all'episodio di Farinata e Cavalcante dei Cavalcanti in Inferno X e soprattutto ai celebri versi 61-63. Dante risponde all’angosciata interrogazione di Cavalcante, che ha domandato come mai suo figlio Guido non stia viaggiando con lui: «Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là (Virgilio), per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». Così Petrocchi, leggendo il quale, dunque, si ha l’impressione che Dante abbia inventato, «forse», la frase più ambigua di tutta la letteratura italiana. Il nuovo testo introduce una virgola dopo «mena», il che consente non di eliminare del tutto, ma di attenuare l’ambiguità della formulazione: «colui che attende là […] mi conduce per questo cammino, verso il quale, forse, Guido vostro ebbe poca considerazione»: come glossa il curatore. Non è virgola di poco conto, dopo le polemiche degli ultimi centocinquanta anni.
Il volumetto contenente il testo della Commedia è un miracolo di obbligata concisione, ma è accompagnato da un altro, il Dizionario del poema, che è una sorta di enciclopedia essenziale del lessico, dei personaggi, dei luoghi e dei concetti principali della Commedia stessa, comprendente anche gli utilissimi schemi grafici del Cosmo Tolemaico, dell'Universo di Dante, dei tre regni oltremondani, e della Candida Rosa. Molte delle voci di questo secondo volume, tutte dettate da mirabile sintesi, costituiscono complementi notevoli del commento: per esempio, “allegoria”, “Aristotele”, “arte”, “creazione”, “Francesco (santo)”, “punto”, “Zodiaco”. Esse sono inoltre «umbriferi prefazi», per dirla con Dante medesimo, di quel che si troverà nell’editio maior della NECOD.
L’appassionato, pluriennale sforzo – il «lungo studio e ’l grande amore» – dell’editore-curatore della Salerno, che traspira da ogni riga delle sue Introduzioni, è improntato alla precisione formidabile di cui si ha un’idea leggendo le sue Prefazioni: mira al mondo degli studiosi, ma anche a quello delle scuole e dell’università, e in ultima analisi al pubblico generale. È la medesima platea cui è diretto il Bene e gli altri di La Porta. Un libro snello e veloce, ma nel quale c’è tutto quel che deve esserci, quasi che l’autore avesse trovato la misura aurea per la sua passione. Aristotele scriveva nella
Metafisica: «Bisogna far sì, partendo dal bene di ciascuno, che il bene integrale diventi il bene di ciascuno». All’inizio della Commedia, Dante colloca se stesso e tutta l’umanità, guardando al bene: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai…ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai». È forse il segno più autentico, e più rilevante, dell’impresa etica del poema: la ricerca del bene, della «diritta via» per sé e gli altri. Anzi per gli altri ancor prima che per sé: perché, sostiene La Porta, più l’io si ritrae per far posto agli altri, maggiore è la possibilità di raggiungere il bene e la felicità.
Possiamo ancora, settecento anni dopo, fondare su Dante una morale non moralistica: noi che, «per non aver fé» come Virgilio e gli altri grandi spiriti pagani del Limbo, «sanza speme vivemo in disio»? Sì, risponde La Porta, se partiamo dalle considerazioni di Simone Weil sulla realtà del bene e l’irrealtà del male: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie». Il cammino del poema è dunque un graduale avvicinamento al «gran mare dell'essere», guardando la realtà «con mente sana», ascoltando gli altri e in primo luogo i bambini, badando soprattutto alla verità. Dante è colui che dichiara a Beatrice: so bene come la mente umana «mai possa essere appagata se non sia illuminata da quella verità (divina) fuori della quale non esiste verità» (Malato). Appena la raggiunge, si posa in essa come una fiera nella sua tana: e può raggiungerla, altrimenti ogni desiderio sarebbe invano. Come un germoglio, il dubbio nasce «a piè del vero» e di vetta in vetta ci spinge sino alla verità suprema. La forza dell'affermazione è inusitata, e bene rende l'immagine di un poeta che da una parte apprende (da Ulisse) che occorre imparare a fermarsi, dall'altra si nutre di verità e dubbi, dubbi e verità, non saziandosi mai finché non giunge alla contemplazione di Dio. La Commedia «nasce da un'esperienza deflagrante della verità»: è fondata, del resto, sullo stupore, batte e ribatte sul problema della giustizia e della misericordia, si esprime spesso per eccessi, come quando Dante invoca Apollo (il Verbo) nel Paradiso, chiedendogli di «spirare» con la stessa forza (con la violenza) già usata nello scuoiare vivo Marsia. Quel che Dante dice nel Convivio – «lo stupore è uno stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire» – prende forma ripetuta di scena nel poema, dall'incontro con Virgilio sino all'«ammirar» col quale Nettuno, dal fondo del mare, guarda all'ombra della nave Argo che passa sopra di lui.
Pure, Dante insegna la «bellezza del mondo terreno», punta insistentemente, come Giotto, sulla concretezza dei corpi. La Porta ribadisce: non è il Dante teologo a contare, per noi, ma quello morale, quello che mostra la via verso la «vita reale». È un libro «spericolato», quello di La Porta, costruito su Auerbach, Singleton e Freccero, ma ancor più su Weil, Guardini e von Balthasar, ma è un libro che respira a pieni polmoni, che schiude orizzonti nuovi, che fa apparire fresco e rilevante uno scritto vecchio di settecento anni.