Il maestro dell’elzeviro
Mario Praz. Che ne è stato del più grande saggista italiano del ’900? Un volume aiuta a riscoprire la sua prosa eccezionale, un “piacere” che è concesso ancora oggi agli intenditori
Mario Praz, il più grande saggista italiano del Novecento, con dissimulata alterigia definì la propria opera «un documento di poche idee ma di molte manie». Troppe idee, si direbbe, non portano a nulla: rovesciando la stroncatura di Croce
al precoce capolavoro (La carne, la morte e il diavolo nella letteratura ro
mantica, 1930), Praz continuò poi imperterrito a sostenere il suo materialismo compulsivo con diversi nutrimenti, non ultimo il mescolio decadente di quelle «dilettazioni tutt’insieme enormi e stupide» che disgustavano il filosofo.
Ma che cosa rimane oggi di questo eccezionale prosatore e artista, The Genius of via Giulia, un tempo celebrato da lettori sommi (da Montale a Curtius a Cyrill Connolly a Edmund Wilson a Cecchi e Arbasino)? Chi potrebbe appassionarsi alla sua prosa “d’applicazione” oggi che la nozione stessa di prosa, in generale, è pressoché fuori corso? Raffaele Manica, critico acutissimo e dai gusti esigenti, ci dice innanzitutto che la “familiarità” era preclusa, fin da principio, allo stile di Praz, ma che il “piacere” è concesso ancora oggi agli intenditori: artista non universale, ma singolare e speciale, l’autore di Fiori fre
schie Lettrice notturna ci si avvicina con aria educata e racée ma anche lontana.
«Troppo sottile per il verso -scrive Manica- il suo ritmo (argomentativo, espositivo) si incarna in prosa» e da quella doppia altezza guarda peraltro a certi esperimenti novecenteschi di prosa perfetta o prosa d’arte o “lirica” con un certo distacco. L’esito lirico e puro della prosa è tutt’altro che l’obiettivo di Praz. Impura e accogliente per definizione la sua lingua precipita nella materia più eterogenea percorrendo un tragitto contrario al rondismo di un Cecchi, ad esempio, che solleva e pareggia a uno stesso diapason i suoni più diversi.
Nel saggismo di Praz troviamo in effetti strepitose modulazioni narrative e coloriture dal grave al burlesco, dal conversativo all’ecdotico. Il celebre
saggio, agrodolce, sul Poe (E.A.Poe, genio d’esportazione, 1958), ad esempio,
è un assemblage di notizie e osservazioni divaganti e bizzarrie: la tomba del poeta pare «la goffa zuccheriera d’un servizio provinciale, con un pesante coperchio e i fianchi di marmo logorati dalle intemperie al punto che la testa del poeta nel medaglione appare irriconoscibile», e ha «l’aria triste, scalcinata, degli oggetti rimasti per anni ed anni nel cortile d’un rigattiere». Ma è anche una somma di comparazioni e giudizi storiografici: qui una nota al Vulgarity in Literature di Aldous Huxley secondo cui poeti sommi come Baudelaire e Mallarmé, innamorati di Poe, non videro ciò che in lui vede ogni inglese, cioè l’imbroglio di una poesia la cui forma è alterata da un cattivo gusto incorreggibile. Là il tesoro poetico «in moneta spicciola» del nevrastenico dandy, genio minore ma soprattutto famoso attore che «muove le folle» (come prima Byron, poi Wilde). A ogni pagina Praz dispensa la sua erudizione e la sua ironia senza farcene scontare il peso schiacciante, come l’amato Charles Lamb che parlava allo stesso modo, con lo stesso brio distratto, di Shakespeare o di una tazzina da caffè.
La «piana e adorna conversazione di perfetto gentiluomo» di Montaigne è la stessa di Praz, formata di capricci, meditazioni, chiose, glosse come se la letteratura fosse tutta dietro di noi, e davanti a noi si aprisse lo spazio nudo e fertile del commento alla letteratura stessa, già scritta ma mai del tutto esaurita. Montaigne, Lamb, Praz hanno predicato, cioè, in tempi diversi, lo stesso vangelo moderno di una verità che si sostiene più sulla continuazione di testi canonici che non sull’invenzione, ex abrupto, di testi nuovi di zecca. Secondo questo vangelo, la letteratura in generale è un sistema progressivo di concepimenti nel calore e nel cuore della tradizione e il saggismo, con tutta la sua secondarietà, è una specie di quintessenza di letteratura.
In particolare, osserva Raffaele Manica, è nell’elzeviro -saggio in miniatura, idealtipo di saggio - poi in una somma(variabile)dielzeviriradunati«nella forma di un libro spesso involontario», che Praz realizza la sua eccezionale arte disaggista.L’elzeviroèperlui«nonsolo una forma letteraria ma anche una misura, quasi una scansione del modo di pensare e di scrivere, salvo poi ricomporsiininsiemicostruitidiintermittenze»: obbligandosi nei suoi margini, la conversazione piana e adorna, virtualmentecontinua,paradigmaconcettuale dell’autore, è sigillata in stemma e peculiare segno stilistico.
Ma dopotutto, che cosa significa, precisamente, conversazione? Da una parte il tipo di conversatore inimitabile e bizarre è Charles Lamb, che Praz echeggia addirittura nella forma mentis: «appartengo anch’io alla categoria delle persone dotate d’intelligenza imperfetta e si contentano di frammenti e di ritagli della Verità, la quale non si presenta loro di faccia, ma con un lineamento o di profilo tutt’al più». D’altra parte la conversazione, a partire dal razionalismo settecentesco, è il principio di intelligenza sociale per eccellenza, cui Praz attribuisce un valore di remora e controllo dell’estetismo in agguato nella prosa d’arte.
Così lo stesso Praz studioso di oscuri emblemi e psicopatologie ultrasadiane è nascostamente ma ostinatamente nostalgico del buon senso
(droit sens) dei razionalisti: Pope, Boileau, Jane Austen: «nel gioco quasi sterniano delle associazioni e digressioni», ha scritto Agostino Lombardo, egli soffre l’horror vacui e quasi uno «sgomento di fronte alla perdita di quelli che Conrad chiamava les valeurs
idéales». Come il furente Gadda rinchiuso nel suo gomitolo di aporie, ma conscio di un «disegno segreto» del mondo ormai irrecuperabile, così Praz, non meno malinconico, invoca il suo ordo rationis al culmine, o al termine, di una serie intralciata di “epoche” che non hanno fatto che contraddirlo. E il saggio, nella sua formale accoglienza del mondo confuso e negligente, suggerisce Manica, è propriamente un pensiero che discerne infine il disegno dove appare un nudo cumulo di grandezze. Piazza Navona, ad esempio, «grazie alla sua orientazione nord-sud, che permette l’illuminazione mattutina del lato monumentale -scrive Praz- e la pomeridiana del lato meno illustre, ma coi balconi e le terrazze fiorite», al mattino «è solenne e il pomeriggio è gaia». Ecco, una volta ancora, nel mondo smarrito, ragione e grazia si toccano. E si riconoscono.