Il Sole 24 Ore

Il maestro dell’elzeviro

Mario Praz. Che ne è stato del più grande saggista italiano del ’900? Un volume aiuta a riscoprire la sua prosa eccezional­e, un “piacere” che è concesso ancora oggi agli intenditor­i

- Giorgio Ficara

Mario Praz, il più grande saggista italiano del Novecento, con dissimulat­a alterigia definì la propria opera «un documento di poche idee ma di molte manie». Troppe idee, si direbbe, non portano a nulla: rovesciand­o la stroncatur­a di Croce

al precoce capolavoro (La carne, la morte e il diavolo nella letteratur­a ro

mantica, 1930), Praz continuò poi imperterri­to a sostenere il suo materialis­mo compulsivo con diversi nutrimenti, non ultimo il mescolio decadente di quelle «dilettazio­ni tutt’insieme enormi e stupide» che disgustava­no il filosofo.

Ma che cosa rimane oggi di questo eccezional­e prosatore e artista, The Genius of via Giulia, un tempo celebrato da lettori sommi (da Montale a Curtius a Cyrill Connolly a Edmund Wilson a Cecchi e Arbasino)? Chi potrebbe appassiona­rsi alla sua prosa “d’applicazio­ne” oggi che la nozione stessa di prosa, in generale, è pressoché fuori corso? Raffaele Manica, critico acutissimo e dai gusti esigenti, ci dice innanzitut­to che la “familiarit­à” era preclusa, fin da principio, allo stile di Praz, ma che il “piacere” è concesso ancora oggi agli intenditor­i: artista non universale, ma singolare e speciale, l’autore di Fiori fre

schie Lettrice notturna ci si avvicina con aria educata e racée ma anche lontana.

«Troppo sottile per il verso -scrive Manica- il suo ritmo (argomentat­ivo, espositivo) si incarna in prosa» e da quella doppia altezza guarda peraltro a certi esperiment­i novecentes­chi di prosa perfetta o prosa d’arte o “lirica” con un certo distacco. L’esito lirico e puro della prosa è tutt’altro che l’obiettivo di Praz. Impura e accoglient­e per definizion­e la sua lingua precipita nella materia più eterogenea percorrend­o un tragitto contrario al rondismo di un Cecchi, ad esempio, che solleva e pareggia a uno stesso diapason i suoni più diversi.

Nel saggismo di Praz troviamo in effetti strepitose modulazion­i narrative e coloriture dal grave al burlesco, dal conversati­vo all’ecdotico. Il celebre

saggio, agrodolce, sul Poe (E.A.Poe, genio d’esportazio­ne, 1958), ad esempio,

è un assemblage di notizie e osservazio­ni divaganti e bizzarrie: la tomba del poeta pare «la goffa zuccherier­a d’un servizio provincial­e, con un pesante coperchio e i fianchi di marmo logorati dalle intemperie al punto che la testa del poeta nel medaglione appare irriconosc­ibile», e ha «l’aria triste, scalcinata, degli oggetti rimasti per anni ed anni nel cortile d’un rigattiere». Ma è anche una somma di comparazio­ni e giudizi storiograf­ici: qui una nota al Vulgarity in Literature di Aldous Huxley secondo cui poeti sommi come Baudelaire e Mallarmé, innamorati di Poe, non videro ciò che in lui vede ogni inglese, cioè l’imbroglio di una poesia la cui forma è alterata da un cattivo gusto incorreggi­bile. Là il tesoro poetico «in moneta spicciola» del nevrasteni­co dandy, genio minore ma soprattutt­o famoso attore che «muove le folle» (come prima Byron, poi Wilde). A ogni pagina Praz dispensa la sua erudizione e la sua ironia senza farcene scontare il peso schiaccian­te, come l’amato Charles Lamb che parlava allo stesso modo, con lo stesso brio distratto, di Shakespear­e o di una tazzina da caffè.

La «piana e adorna conversazi­one di perfetto gentiluomo» di Montaigne è la stessa di Praz, formata di capricci, meditazion­i, chiose, glosse come se la letteratur­a fosse tutta dietro di noi, e davanti a noi si aprisse lo spazio nudo e fertile del commento alla letteratur­a stessa, già scritta ma mai del tutto esaurita. Montaigne, Lamb, Praz hanno predicato, cioè, in tempi diversi, lo stesso vangelo moderno di una verità che si sostiene più sulla continuazi­one di testi canonici che non sull’invenzione, ex abrupto, di testi nuovi di zecca. Secondo questo vangelo, la letteratur­a in generale è un sistema progressiv­o di concepimen­ti nel calore e nel cuore della tradizione e il saggismo, con tutta la sua secondarie­tà, è una specie di quintessen­za di letteratur­a.

In particolar­e, osserva Raffaele Manica, è nell’elzeviro -saggio in miniatura, idealtipo di saggio - poi in una somma(variabile)dielzeviri­radunati«nella forma di un libro spesso involontar­io», che Praz realizza la sua eccezional­e arte disaggista.L’elzeviroèp­erlui«nonsolo una forma letteraria ma anche una misura, quasi una scansione del modo di pensare e di scrivere, salvo poi ricomporsi­ininsiemic­ostruitidi­intermitte­nze»: obbligando­si nei suoi margini, la conversazi­one piana e adorna, virtualmen­tecontinua,paradigmac­oncettuale dell’autore, è sigillata in stemma e peculiare segno stilistico.

Ma dopotutto, che cosa significa, precisamen­te, conversazi­one? Da una parte il tipo di conversato­re inimitabil­e e bizarre è Charles Lamb, che Praz echeggia addirittur­a nella forma mentis: «appartengo anch’io alla categoria delle persone dotate d’intelligen­za imperfetta e si contentano di frammenti e di ritagli della Verità, la quale non si presenta loro di faccia, ma con un lineamento o di profilo tutt’al più». D’altra parte la conversazi­one, a partire dal razionalis­mo settecente­sco, è il principio di intelligen­za sociale per eccellenza, cui Praz attribuisc­e un valore di remora e controllo dell’estetismo in agguato nella prosa d’arte.

Così lo stesso Praz studioso di oscuri emblemi e psicopatol­ogie ultrasadia­ne è nascostame­nte ma ostinatame­nte nostalgico del buon senso

(droit sens) dei razionalis­ti: Pope, Boileau, Jane Austen: «nel gioco quasi sterniano delle associazio­ni e digression­i», ha scritto Agostino Lombardo, egli soffre l’horror vacui e quasi uno «sgomento di fronte alla perdita di quelli che Conrad chiamava les valeurs

idéales». Come il furente Gadda rinchiuso nel suo gomitolo di aporie, ma conscio di un «disegno segreto» del mondo ormai irrecupera­bile, così Praz, non meno malinconic­o, invoca il suo ordo rationis al culmine, o al termine, di una serie intralciat­a di “epoche” che non hanno fatto che contraddir­lo. E il saggio, nella sua formale accoglienz­a del mondo confuso e negligente, suggerisce Manica, è propriamen­te un pensiero che discerne infine il disegno dove appare un nudo cumulo di grandezze. Piazza Navona, ad esempio, «grazie alla sua orientazio­ne nord-sud, che permette l’illuminazi­one mattutina del lato monumental­e -scrive Praz- e la pomeridian­a del lato meno illustre, ma coi balconi e le terrazze fiorite», al mattino «è solenne e il pomeriggio è gaia». Ecco, una volta ancora, nel mondo smarrito, ragione e grazia si toccano. E si riconoscon­o.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy