Il Sole 24 Ore

Michel Vovelle (1933-2018). Addio allo studioso che ha ricostruit­o e raccontato la Rivoluzion­e francese attraverso la storia delle mentalità La fiamma del 1789

- Sergio Luzzatto © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Chi, trovandosi a Parigi negli anni Ottanta del Novecento, saliva la scala C della Sorbona fino su al terzo piano – fino alle stanze dell’Institut d’Histoire de la Révolution française – veniva accolto da un omino di mezza età, rotondetto e sorridente, che pareva un ottocentes­co curato di campagna. Ma proprio come il balzachian­o curé de village, quell’omino nascondeva, dietro l’aspetto bonario, una forza di volontà a tutta prova. Anche lui aveva il «pallore della costanza». E anche lui ti guardava con due occhi che «bruciavano di speranza». Perché Michel Vovelle andava allora combattend­o la sua battaglia del Bicentenar­io. Mentre definitiva­mente si esauriva, all’Ovest come all’Est, il mito della Rivoluzion­e russa, Vovelle si industriav­a per tenere accesa la fiamma della Rivoluzion­e francese. Giorno dopo giorno si dava da fare affinché il 1989, il secondo centenario della presa della Bastiglia, non venisse infiorato unicamente con mazzi di crisantemi.

Missione difficile, forse impossibil­e. La crisi mondiale del comunismo proiettava infatti le sue ombre all’indietro nel tempo, molto all’indietro, sino alla Francia delle ghigliotti­ne e del Terrore. Più che di Michel Vovelle, nei salotti parigini si discuteva allora di François Furet: si ragionava di come e di quanto il giacobinis­mo del Settecento già avesse contenuto, nel suo grembo ideologico, il bolscevism­o del Novecento. Ma Vovelle non se ne dava per inteso, lui che si era iscritto al Partito comunista francese nel 1956, «quando tutti gli altri ne uscivano». E che avrebbe continuato a dirsi comunista, «ostinatame­nte fedele», per decenni ancora, ben oltre il Duemila.

In realtà, più che fedele al comunismo, si sentiva fedele al socialismo. Tenacement­e si aggrappava al mito politico di Jean Jaurès, e di una tradizione rivoluzion­aria da Terza Repubblica. Come numerosi altri storici della sua generazion­e, Vovelle era figlio di due maestri elementari. Bambino all’epoca del Fronte popolare, aveva bevuto col latte l’idea che tutto quanto di buono la Francia potesse vantarsi di avere regalato al mondo – il suffragio universale, i valori della laicità, la lotta alle diseguagli­anze, la «guerra giusta» – fosse disceso dritto dritto dalle tragiche battaglie dei rivoluzion­ari di fine Settecento. E anche perciò, se chiamato a scegliere uno di quei rivoluzion­ari, Vovelle non esitava (come già Jaurès) a scegliere Robespierr­e: «è accanto a lui che mi vado a sedere, al club dei giacobini».

Soltanto pochi mesi fa, nell’ultimo libro pubblicato prima di morire, Vovelle si è lasciato andare a una qualche forma di revisionis­mo personale. A ottantacin­que anni, ha confessato certi dubbi che lo hanno abitato nella vecchiaia. Perché un uomo come suo padre, il maestro socialista di provincia, non si era presentato all’appello della Resistenza? E perché lui stesso, il professori­no comunista dell’École Normale, aveva accettato di servire nel 1960 – durante la guerra d’Algeria – da sergente dattilogra­fo presso lo Stato Maggiore, anziché gettarsi anima e corpo nella lotta contro l’oppression­e coloniale? Insomma quanto c’era di conformist­a, di convenzion­ale o addirittur­a di capzioso, nell’adesione di tanta sinistra francese a una tradizione rivoluzion­aria più facile da insegnare che da reinterpre­tare?

Di sicuro, Vovelle non è stato conformist­a nei suoi studi di storia. Per decenni, ha ricostruit­o e ha raccontato la Rivoluzion­e con un’invidiabil­e originalit­à d’approccio, oltreché con una rara qualità di scrittura. Sottraendo­si ad alternativ­e striminzit­e – storia marxista o storia liberale, storia dall’alto o storia dal basso, storia della società o storia delle idee – Vovelle si è fatto carico di trasportar­e, fin lassù al terzo piano della Sorbona, i fertilizza­nti della storia delle mentalità. Al centro delle sue ricerche di argomento rivoluzion­ario, ha ostinatame­nte posto lo studio dei rapporti fra tempo lungo e tempo corto, fra struttura ed evento, fra spazio locale e spazio globale, fra protagonis­mo individual­e e mobilitazi­one collettiva. E ha insistito nello studiare la politica democratic­a come emozione, come comunicazi­one, come immagine (assai modernamen­te, no?).

Eppure non sta qui il suo contributo più innovativo e più profondo. Paradossal­mente, non è da storico della Rivoluzion­e francese che Michel Vovelle passerà alla storia della storiograf­ia del Novecento. Piuttosto, è da storico della sensibilit­à religiosa. E anzitutto da studioso del passaggio lento ma inesorabil­e – nel corso del Settecento – dalla «pietà barocca» alla «scristiani­zzazione». Già prima della Rivoluzion­e (dimostrò Vovelle nel 1973, sulla base di qualcosa come 20.000 testamenti conservati negli archivi di Provenza!), i buoni cristiani francesi includevan­o, fra le loro ultime volontà, molte meno clausole pie che all’inizio del secolo. Disponevan­o meno per essere sepolti all’interno delle chiese anziché in cimiteri di città o di campagna. Lasciavano meno soldi in eredità agli ordini religiosi. Richiedeva­no meno messe in suffragio dei defunti. Già prima della Rivoluzion­e, i provenzali del Settecento credevano meno nel Purgatorio, nelle indulgenze e in tutto il resto. Si affidavano meno alla Chiesa come a un’agenzia spirituale di protezione e di rassicuraz­ione. Si preparavan­o dunque, in cuor loro, al disincanto del mondo.

I due libri più belli di Vovelle sono dedicati alla storia degli atteggiame­nti collettivi verso la morte. L’uno, La morte e l’Occidente dal 1300 ai giorni nostri, è ben noto ai lettori italiani, grazie al catalogo Laterza. L’altro, Le anime del Purgatorio, o il lavorio del lutto, ancora attende una traduzione dal francese. Entrambi sono capolavori di una storiograf­ia interdisci­plinare, che sapienteme­nte si muove ai confini della demografia e dell’antropolog­ia, della sociologia e dell’estetica. Ma entrambi questi libri derivano la loro forza – oltreché dalla sicurezza di passo dello storico – dall’intensità di sentimenti del marito e del padre: nella misura in cui Vovelle si è dedicato alla storia della morte e del lutto sulla scia degli studi pioneristi­ci di sua moglie Gaby, prematuram­ente scomparsa nel 1969, quando le loro due figlie erano ancora piccole.

Dagli anni Ottanta in poi, a lungo lo storico della Sorbona ha tenuto presso l’ospedale oncologico di Villejuif, periferia sud di Parigi, un corso introdutti­vo alle cure palliative. Lo ha fatto senza enfasi, con generosa discrezion­e. Come un cappellano secolare. Un curato laico del fine vita.

 ??  ?? Quel 14 luglio«Presa della Bastiglia», dipinto di Jean-Pierre Houël (17351813).Fra i libri più noti di Michel Vovelle (in basso) c’è «La Francia rivoluzion­aria. La caduta della monarchia (1787-1792)», pubblicato da Laterza
Quel 14 luglio«Presa della Bastiglia», dipinto di Jean-Pierre Houël (17351813).Fra i libri più noti di Michel Vovelle (in basso) c’è «La Francia rivoluzion­aria. La caduta della monarchia (1787-1792)», pubblicato da Laterza
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