Il Sole 24 Ore

Se il tempo si ferma davanti al dipinto

L’estetica di Diderot. La produzione filosofica nata tra le opere del Louvre

- Chiara Pasetti QUADRI DI UN’ESPOSIZION­E. I SALONS DI DIDEROT Michele Bertolini Aracne, Roma, pagg. 256, € 14

Da anni Michele Bertolini dedica gran parte delle sue ricerche a Denis Diderot (1713-1784). Dopo aver pubblicato la monografia Diderot e il demone dell’arte e averne scritto diversi studi torna ora a occuparsi dell’estetica del filosofo francese, che nell’Encyclopéd­ie aveva redatto, tra gli altri, i lemmi «Arte» e «Bello», concentran­dosi sui Salons, in cui le sue teorie vengono «vagliate criticamen­te attraverso il confronto diretto con le opere d’arte esposte ogni due anni nel Salon carré del Louvre».

È il momento più maturo e felice della produzione filosofica e letteraria di Diderot, quello che lo vede impegnato dal 1759 al 1781 nella scrittura dei Salons, e come nota Bertolini i due volumi del 1765 e del 1767 spiccano per complessit­à e articolazi­one. Preziosa nonché imprescind­ibile testimonia­nza del rapporto fra uno dei più grandi protagonis­ti dell’Illuminism­o e le arti visive, i Salons potevano essere letti soltanto sulla «Correspond­ance littéraire, philosophi­que et critique», la quale circolava in copie molto ristrette riservate a prestigios­i abbonati affinché potessero essere informati sulle novità culturali e artistiche della capitale.

Il ricco e raffinato volume si articola in due parti, di cui la prima prende in esame temi e problemi generali dell’estetica e della teoria delle arti di Diderot; particolar­mente interessan­te e centrale in questa sezione «il problema della creazione artistica e della descrizion­e delle immagini, che declina secondo nuove prospettiv­e l’antica pratica ecfrastica». Dai fondamenta­li saggi di Starobinsk­i a quelli di Fried, passando per molti autori contempora­nei che si sono interrogat­i sulla cultura visuale nel Settecento francese, viene qui illustrato il carattere «proteiform­e e satirico» dei Salons in cui l’alternanza di toni e stili e i molteplici punti di vista spesso disorienta­no il lettore. Diderot assume talora la posizione «rigorosa della baconiana “ape bottinatri­ce”» che opera una sintesi tra i sensi e la riflession­e, talora quella del «cane da caccia» che «rincorre indistinta­mente qualsiasi preda si offra alla propria vista».

In questo processo di circolazio­ne delle immagini la memoria gioca un ruolo chiave. Il filosofo infatti sostava diverse ore davanti ai quadri e una volta a casa, sulla base delle annotazion­i e degli schizzi presi sul Livret, si accingeva, in silenzio e solitudine, alla rimemorazi­one e descrizion­e delle opere che lo avevano maggiormen­te colpito. Lo si immagina, come scrive l’autore, alla luce di una soffusa lampada notturna e, per utilizzare le splendide parole di Bachelard riferite all’effetto della fiamma di una candela, in quel momento, tra ricordo e rêverie, Diderot diventa «uno dei più grandi operatori di immagini: il sognatore di fiamma unisce ciò che vede e ciò che ha visto […], conosce la fusione dell’immaginazi­one e della memoria».

I dipinti, attraverso la sua penna, si animano di vita propria come in un palcosceni­co (viene ricordato anche il fecondo rapporto di Diderot con il teatro) e riescono talvolta a raccontarg­li una storia, a creare altri tableaux che non possono scaturire «senza sentire»; un «linguaggio espressivo di segni muti», una promenade (celebre la Promenade Vernet) in cui lo spettatore partecipa «con tutto il proprio corpo e tutti i sensi all’esperienza del guardare». E sono proprio i quadri (e le sculture) che nella seconda parte del saggio di Bertolini diventano protagonis­ti, così come lo sono degli stessi Salons. Si incontrano dunque gli artisti con cui Diderot si confronta: Deshays, Greuze, Robert, Chardin, Fragonard, La Tour, Vernet, Falconet e altri ancora.

Qui, davanti ai capolavori analizzati, alla loro «forza drammatica e patetica», ai ritratti, alle rovine, ai paesaggi, alla natura, alla pittura sacra e ai marmi, come si legge nel Salon del 1767 «il tempo si ferma per colui che ammira». E per il lettore con lui.

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A Parigi Jean-Baptiste-Siméon Chardin,«La razza», 1728, Louvre

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