Da 150 a 1500 euro
mercato dell’arte nello stesso momento in cui sembra volerlo contrastare. Le sue opere hanno prezzi politici e popolari quando si tratta di multipli come piccole serigrafie, stampini, fotografie, vendute nella Bansky Prints Gallery di Londra a 35 sterline a foglio, oppure nel 2013 fuori dal Central Park di New York per 60 dollari. Mentre si attestano sui 200mila - 300mila dollari quando si tratta di esemplari unici, dipinti a spray su tela, come l’analoga Girl With Balloon realizzata in 25 esemplari nel 2003 e aggiudicata a marzo 2018 da Bonhams Londra per € 313.465 (esclusi i diritti).
La prima opera di Bansky a passare di mano in asta fu Keep it real, una tecnica mista aggiudicata da Bonhams Londra nel 2003 per € 1.153, mentre il record spetta all’acrilico Keep it spotless (2007), battuto nel 2008 per € 1.166.540 (a sette volte la stima).
Dal 2003 si registrano quasi 2500 aggiudicazioni d’asta (1720 multipli, 436 dipinti, 219 oggetti e 105 sculture) battute per il 72% in Gran Bretagna. A impazzire per lo Street artist sono le star del cinema come Brad Pitt, Angelina Jolie, Robin Williams e dell’arte come Damien Hirst e i fratelli Chapman, ma anche gente comune che spende da 1.000 a 5.000 dollari per un suo lavoro, conferendo solidità al “titolo” Bansky, il cui valore è cresciuto del 629,9% in dodici anni (Fonte ArtPrice).
La performance di Banksy che distrugge la sua opera seppure con modalità e luoghi inediti - appartiene a un capitolo della storia dell’arte ricco di precedenti. Da Marcel Duchamp a Jean Tinguely, fino a Tino Sehgal, il linguaggio di certa arte contemporanea è così provocatorio da prevedere la smaterializzazione dell’opera stessa.
Già nel 1968 Giovanni Anselmo (1934), esponente dell’arte povera, aveva creato l’installazione Senza titolo - ribattezzata subito «la scultura che mangia l’insalata» con una lastra di granito tenuta sospesa, mediante un filo di rame, a un pilastro di marmo. Fra questo e la lastra si trova un cespo di lattuga fresca che in pochi giorni appassisce, obbligando il collezionista a sostituirla, altrimenti la lastra, senza più il volume previsto del vegetale, cadrebbe. L’opera è una riflessione sul tempo, su ciò che passa (l’insalata) e ciò che resta (il granito).
Stefano Arienti (1961), invece, ha creato nel 2015 una scultura destinata a dissolversi, posta davanti a una baita in Val Ferret, ai piedi della catena del Monte Bianco. Composta da libri impilati uno sull’altro e lasciata volutamente all’aperto, sotto neve, ghiaccio, sole e vento, l’installazione col passare del tempo si trasforma come ogni organismo vivente, finché arriverà il giorno della sua definitiva scomparsa.
Anziché sfidare con la loro arte il tempo - come fecero i giganti del passato - molti artisti del presente preferiscono giocare con lui, da Pier Paolo Calzolari (1943), famoso per le sue installazioni di ghiaccio, margarina, piombo fuso a Elisabetta Di Maggio (1964), che per le sue sculture predilige materiali deperibili come sapone, carta velina, intonaco.
Molta arte contemporanea, infatti, sembra votata all’impermanenza; non pochi artisti la cercano di proposito, enunciando esplicitamente la volontà di rendere le loro opere transitorie. Per tanti altri, invece, si tratta di incidenti di percorso, dovuti alla difficoltà di sperimentare materiali nuovi, atipici, antitradizionali e i cui processi di degrado sono ancora sconosciuti. È il caso di Loris Cecchini (1969) che esordì vent’anni fa con «sculture - non sculture» in gomma uretanica grigia, che col passare del tempo perse consistenza, dapprima deformandosi e poi letteralmente squagliandosi.
Il problema della conservazione dell’arte contemporanea è molto sentito, soprattutto dai collezionisti. Come sostituire, ad esempio, nelle installazioni luminose di Dan Flavin (1933 - 1996) create negli anni sessanta, un tubo al neon ormai fuori commercio? O ancora, come fare ripartire i motorini inseriti nei dispositivi dinamici dell’arte cinetica? E infine come fruire di un’opera di videoarte prodotta dall’artista su un floppy disk degli anni Settanta? Se si salva il contenuto su un nuovo supporto digitale dove finisce l’opera originale? Bisognerà conservare il floppy come un feticcio?
A queste e a tante altre domande, sempre più frequenti da parte di collezionisti e investitori di arte moderna e contemporanea, stanno rispondendo in Italia i più avanzati centri di restauro e si stanno attrezzando non pochi studi legali specializzati in gestione di patrimoni artistici. Per farsi un’idea dell'entità del problema dell’arte deperibile suggerisco un libro edito nel 2015 da Marsilio con la Fondazione Cologni e Open Care: In Opera. Conservare e restaurare l’arte contemporanea, a cura di Isabella Villafranca Soissons.
There’s an elephant in the room, there's a problem that we never talk about, 2006 in vendita
per € 200, che raffigura un piccolo africano nudo e denutrito, mentre la stampa Box set del 2017 (nella foto), con parti colorate a mano, è offerta a
€ 1.200-1.500