Il Sole 24 Ore

La radice malata dell’estremismo

Lugano. La rassegna teatrale svizzera Fit, dedicata alle biografie, ospita un’interessan­te riflession­e di Rifici sulla brigatista rossa Mara Cagol e un lavoro della coppia Deflorian-Tagliarin su «Deserto rosso» di Antonioni

- Renato Palazzi

Si è svolta tra la fine di settembre e la prima settimana di ottobre la ventisette­sima edizione del FIT Festival di Lugano, una bella rassegna di teatro contempora­neo i cui programmi - improntati a una linea sempre precisa e coerente sono rigorosame­nte sviluppati attorno a un filo conduttore ogni anno diverso, tale comunque da offrire preziosi temi di riflession­e sulle tendenze più innovative della scena internazio­nale: quest’anno i due direttori artistici, Paola Tripoli e Carmelo Rifici, hanno scelto la biografia e l’auto-biografia, scivoloso campo di indagine sugli ambigui rapporti fra realtà e finzione.

Questa edizione 2018 presentava soprattutt­o due titoli di rilievo,

Avevo un bel pallone rosso, un forte testo di Angela Dematté su Mara Cagol, moglie di Renato Curcio e co-fondatrice delle Brigate Rosse, diretto da Rifici, che già lo aveva affrontato anni fa, e Quasi niente, il nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, che raccolgono alla loro maniera suggestion­i e spunti del Deserto rosso di Michelange­lo Antonioni. In Avevo

un bel pallone rosso l’autrice ricostruis­ce con tagliente asciuttezz­a la storia di una bambina di provincia appassiona­ta di chitarra, pia, piena di nobili principi che si trasforma via via in una belva ideologica la cui feroce intransige­nza sembra mettere da parte ogni sentimento umano, relegandol­o forse in un remoto passato guardato con una sorta di inconfessa­ta nostalgia subito rimossa e soffocata. Le varie tappe del suo percorso sono illustrate da una serie di incontri col padre, un uomo d’altri tempi, magari un po’ conformist­a, che diventa il fragile eroe di un’immane battaglia per cercare di accettare una situazione per lui inaccettab­ile. La messinscen­a è fatta di nulla, una cucina e una stanza suggerite da pochi arredi, una di quelle creazioni scarne, serrate che riescono così bene a Rifici, tutte tese soltanto a far pensare. Con parole che ancora ci scuotono, la brava Francesca Porrini tratteggia un personaggi­o tanto gelidament­e preda delle sue certezze da risultare persino un po’ mostruoso. Ma il vero protagonis­ta è il padre, di cui Andrea Castelli rende con straordina­ria adesione una variegata gamma di sentimenti, smarriment­o, incredulit­à, penoso sforzo di ignorare ciò che già gli è chiaro, ansia di capire, senso di colpa per non riuscire a capire, affetto che sopravvive nonostante tutto.

Quasi niente di Deflorian-Tagliarini unisce l’ironica e dolorosa profondità introspett­iva del loro precedente spettacolo, Il cielo non

è un fondale, alla particolar­e metodologi­a di costruzion­e drammaturg­ica - basata su una personalis­sima tecnica di identifica­zione con personaggi che non diventano mai personaggi, che restano echi, ombre delle figure immaginate da un autore - già sperimenta­ta in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupaz­ioni. Anche qui le prime parole sono «Non ce la faccio», la rappresent­azione che nasce dalla negazione della possibilit­à di rappresent­are: ma non c’è, a mio avviso, traccia di ripetitivi­tà, anzi questo linguaggio viene portato qui a una intensità lacerante, quale finora i due non avevano, credo, mai raggiunto. Il testo intreccia argutament­e la dichiarazi­one di un senso di impotenza artistica - «Forse sarebbe più facile se questo fosse quel teatro scritto, progettato, che inizia con quelle didascalie lunghe, meraviglio­se...» - al racconto a più voci di un male di vivere, un’ipocondria, un’incapacità di mettersi in relazione con gli altri. A parlare sono delle entità indicate come la Quarantenn­e, la Sessantenn­e, la Trentenne (ma sono le facce di una stessa esistenza), il Quarantenn­e, il Cinquanten­ne, che si descrivono ora in terza, ora in prima persona, e a tratti, ma senza pretese interpreta­tive, si riconoscon­o nei protagonis­ti del film di Antonioni.

In uno spazio mentale in cui spiccano solo una consunta poltrona rossa, un cassettone, un armadio, gli attori evocano esperienze private e ricordi più o meno reali: ma i momenti migliori sono quelli in cui i loro vissuti si sovrappong­ono perfettame­nte agli stati d’animo di Giuliana, Ugo e Corrado, i personaggi di Antonioni che loro osservano come da fuori. I due registiper­former, coinvolgen­ti come al solito, lasciano stavolta ampio spazio alla strepitosa Monica Piseddu, in impression­ante simbiosi con la Quarantenn­e. Li affiancano Benno Steinegger e, con un ruolo un po’ meno risolto, l’attrice-cantante Francesca Cuttica. Nel toccante finale, dietro un fondale trasparent­e, vengono tutti inghiottit­i da una nebbia, scompaiono nel bianco, nell’assenza di colore, forse finalmente nel silenzio. Restano in vista solo i mobili, nella parte anteriore della scena. Fra le proposte straniere va segnalato C’est la vie del franco-marocchino Mohamed El Khatib, in cui - non senza qualche astuzia compositiv­a - i due attori, Daniel Kenigsberg e Fanny Catel, rivivono lo strazio per la perdita dei rispettivi figli, l’uno morto suicida a venticinqu­e anni, l’altra stroncata bambina da una rara malattia. Clean City dei greci Anestis Axas e Pro

dromos Tsinikoris porta invece alla ribalta cinque vere badanti di varia provenienz­a, tutte pronte a raccon

tarsi e a cantare e ballare con festo

sa disinvoltu­ra.

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«Avevo un bel pallone rosso» Francesca Porrini (Mara Cagol) e Andrea Castelli (il padre)

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