SPINGERE SULLA CRESCITA
La manovra varata dal governo scommette tutta la sua credibilità sulla crescita. Sfida condivisibile, ma non basta l’affermazione: serve invece costruire una rete di misure tutte orientate alla crescita. Perché senza priorità alla crescita (anche nell’interpretazione delle misure “sociali”) non solo crollerà l’intero impianto di finanza pubblica ma si marchierà la manovra come assistenziale.
Le misure finora annunciate non sono sufficienti a garantire un percorso di crescita coerente con gli obiettivi del Def. Per convincere mercati, Ue, agenzie di rating (e anche lavoratori e imprese italiani) bisogna rafforzare tutte le norme verso la crescita, cominciando con il dare continuità alle cose che hanno funzionato. Dopo il varo, siamo ora in una fase nuova, in cui non aiuta ripetere - come fatto finora - «la manovra non si tocca». La via del confronto, viceversa, può rendere più credibile l’affermazione che la crescita è una priorità.
Vediamo cosa non convince delle misure annunciate. Anzitutto sul fronte degli investimenti privati che nell’ultimo biennio sono stati il traino della crescita (con l’export). L’indagine Bankitalia-Sole 24 Ore sulle aspettative delle imprese (pubblicata domenica scorsa) dice che le aziende confermano per ora i piani di investimento. Quel flusso può essere ancora motore della crescita presente e futura. Industria 4.0 ha sostenuto la congiuntura e ha reso le imprese più competitive.
Il governo ha varato una nuova, importante misura - l’Ires ridotta dal 24 al 15% - per imprese che investono (o assumono). È una misura «incrementale», quindi con effetti limitati. Inoltre, si è deciso di ridimensionare gli altri strumenti fiscali che erano stati artefici del boom degli ultimi due anni: il super e l’iperammortamento. È comprensibile la voglia di un governo di caratterizzare la politica economica con strumenti nuovi, a lui riconducibili. Ma la politica non ha ancora capito che accelerare la crescita richiede pazienza e spinte univoche. Sfruttare le spinte in atto senza cambiare condizioni. Eliminare il superammortamento e depotenziare l’iper, riducendo le soglie per investimenti maggiori, non è una buona mossa. E non è una buona mossa eliminare l’Ace o depotenziare l’ecobonus dal 65 al 50% per alcuni investimenti (caldaie a condensazione). Negli anni passati è stato l’unico salvagente per l’edilizia.
Qualcosa di simile si può dire sugli investimenti pubblici. L’errore in cui sono caduti gli ultimi governi - che non sono riusciti a rilanciare la spesa effettiva - è stato quello di inaugurare una nuova stagione di infrastrutture a propria firma con cesure rispetto al passato. Il codice appalti, fatto entrare in vigore senza un adeguato periodo transitorio, dovrebbe servire da lezioni a tutti.
È positivo che il governo abbia scelto ora di puntare sul rilancio delle infrastrutture, ma bisogna vedere se le norme annunciate per semplificare regole e procedure saranno all’altezza e saranno varate rapidamente, come promesso ieri dai ministri Salvini e Toninelli.
Resta il tema della continuità. Nel 2019 non si rilancerà la spesa per investimenti (il Def prevede +2,8% per le costruzioni) se si partirà interrompendo le opere in corso che tirano cassa. Il caso del terzo valico è sintomatico. E stesso discorso vale per le analisi costibenefici promosse a 360°.
A ore si deciderà per il Tap e la posizione della ministra per il Sud Lezzi, che considera il costo della interruzione dei lavori, esprime realismo e buon senso. Ma non basta. Un governo ha diritto a perseguire le proprie priorità e a innovare, ma bisognerebbe superare l’idea che politica economica e crescita si fanno cancellando quel che hanno fatto gli altri prima. Soprattutto se nel Def si scrive che proprio alle leve degli investimenti si lega il successo delle proprie politiche.