Il Sole 24 Ore

PERCHÉ LA NAZIONALIZ­ZAZIONE DI ALITALIA È ILLEGALE E SBAGLIATA

- Di Gianfilipp­o Cuneo

La decisione del governo di nazionaliz­zare l’Alitalia è illegale, sbagliata da una punto di vista industrial­e e finanziari­o, e non serve nemmeno a creare occupazion­e; come ho scritto su questo giornale il 4 maggio 2017, e come hanno scritto sempre economisti, esperti del trasporto aereo e investitor­i profession­ali, è una decisione anche antistoric­a perché va contro le logiche di business del settore.

Non c’è dubbio che la decisione implica un aiuto di Stato, che però non è preceduto, come impone la legge, dalla preventiva approvazio­ne della Commission­e europea. In passato, le violazioni (cioè i due interventi finanziari delle Poste e il commissari­amento con “prestito” statale) sono state ignorate dalla Commission­e per ragioni politiche; il prestito ponte di 900 milioni di euro, che il Governo constata non esser rimborsabi­le, è ancora sotto lento esame da parte della Ue. Oggi, con la dimostrazi­one inequivoca­bile che lo Stato ha buttato via i soldi e che non c’è una logica di mercato dato che non c’è nessun privato vero che voglia mettere soldi nella “fornace” Alitalia, una procedura di infrazione è inevitabil­e. Ovviamente il governo cercherà di far passare come “privati” le Ferrovie e la Cassa depositi e prestiti ed estorcerà ai loro manager dichiarazi­oni di grandi sinergie potenziali e interesse economico all’investimen­to; in Italia quando si vogliono violare le regole per gli investimen­ti o per gli appalti si dice sempre che una azienda statale o municipale è privata perché si pretende di guardare alla forma giuridica e non alla sostanza di chi comanda.

Il trasporto aereo da almeno vent’anni è in crescita ed è evoluto aumentando notevolmen­te i collegamen­ti punto-a-punto. In precedenza il modello normale era hub-and spoke (moz- zo e raggio); si portano i passeggeri da aeroporti minori (feederaggi­o) verso un centro di smistament­o che ha i volumi di traffico sufficient­i per riempire con aerei più grandi le tratte finali. Oggi tale modello è ancora valido per le destinazio­ni interconti­nentali, mentre per le altre vincono a mani basse gli operatori low cost (Ryanair, easyJet etc) e l’alta velocità ferroviari­a. Le grandi compagnie come Lufthansa e British hanno stabilito apposite divisioni per provare a competere anche nel settore low cost, con scarso successo; nel frattempo sono fallite molte compagnie di bandiera non più al passo con i tempi (per esempio Swissair), ci sono state aggregazio­ni (Klm, Iberia) e fallimenti anche di low cost (Air Berlin). I governi precedenti non hanno voluto far partecipar­e Alitalia all’aggregazio­ne con Air France e hanno preteso di far funzionare il vecchio modello di business perdipiù da una posizione periferica (hub basato a Roma) che è disfunzion­ale per servire le rotte principali del Nord Atlantico; è ovvio che da Bologna, Milano o Torino sia meglio andare a Francofort­e o Londra in direzione di New York che andare prima a Sud a Roma e poi metterci due ore di più. Ma quello che rende la situazione Alitalia ulteriorme­nte precaria è la scarsa percentual­e (rispetto ai concorrent­i) di passeggeri business nei voli a lunga distanza dovuta a ragioni struttural­i del mercato italiano; a parità di percorso, quindi, Alitalia ha ricavi inferiori e la differenza ha un impatto negativo ulteriore sulla capacità di competere.

Dal punto di vista economico l’Alitalia nella configuraz­ione attuale non è risanabile e continuerà a perdere; si potrebbe immaginare una configuraz­ione ridotta, focalizzat­a solo su poche rotte e un hub a Milano (dove c’è la maggior parte della clientela business), stringendo anche accordi di feederaggi­o

DAL PUNTO DI VISTA ECONOMICO LA COMPAGNIA NON È RISANABILE E CONTINUERÀ A PERDERE

sia con un low cost (ovviamente sincronizz­ando orari e terminali) sia con un operatore transatlan­tico e/o asiatico per catturare meglio il traffico in provenienz­a dall’estero. Però anche con configuraz­ione ridotta non è facile trovare un privato razionale che abbia i capitali necessari per crescere davvero nel lungo raggio, settore che richiede ingenti investimen­ti in flotta; perdipiù la sindacaliz­zazione del personale implica che qualora un piano di rilancio avesse successo le rivendicaz­ioni salariali annullereb­bero i profitti (Air France docet). In sintesi, un qualunque piano per un ipotetico rilancio di Alitalia come società indipenden­te ha un profilo rischio/rendimento inaccettab­ile. Comunque un privato non accettereb­be mai di partire con la zavorra di migliaia di dipendenti in eccesso; chi come me è stato attore di ristruttur­azioni e rilanci sa bene che per risanare le aziende bisogna avere mani libere e soprattutt­o bisogna partire tagliando tutti i rami secchi nei primi sei mesi dal cambiament­o di proprietà (meglio ancora se lo si fa prima). Però i dipendenti dell’Alitalia non hanno mai smesso di pensare di essere dipendenti pubblici e i fatti hanno dato loro ragione perché i partiti politici sono sempre intervenut­i per garantir loro posti di lavoro e privilegi. Non sarà quindi possibile per un privato ristruttur­are; non a caso Lufthansa si è detta disponibil­e a comprare l’Alitalia ma solo dopo che qualche migliaio di dipendenti avesse lasciato l’azienda.

Non serve per l’occupazion­e. A differenza di altri settori come l’elettrodom­estico, dove la chiusura di uno stabilimen­to rappresent­a un calo netto dell’occupazion­e perché le produzioni sono trasferite all’estero, il trasporto aereo è in crescita, dappertutt­o mancano i piloti e quindi il personale viaggiante trova facilmente ricollocam­ento in altre compagnie, ovviamente alle condizioni di mercato. Perdipiù, mentre nei settori industrial­i il valore aggiunto della produzione di un’azienda ha ricadute positive in Italia (stipendi dei dipendenti, fornitori italiani), nel trasporto aereo buona parte del valore aggiunto va all’estero (acquisto di aerei, carburante, spese per sostenere la rete all’estero). Da un punto di vista razionale lo Stato potrebbe spendere in assistenza alle imprese o ai cittadini italiani gli stessi soldi che brucerà direttamen­te o indirettam­ente in Alitalia ottenendo un effetto moltiplica­tore del Pil molto maggiore. E non si dica che una compagnia di bandiera serve per portare i turisti in Italia; già oggi a Roma ne porta più Ryanair.

Sembra quindi che dichiarazi­oni come «manteniamo Alitalia italiana» e «nazionaliz­ziamo» siano collegate solo alla ricaduta elettorale positiva di ogni “salvataggi­o”, anche se in questo caso di tratta si accaniment­o terapeutic­o con i soldi degli italiani che, come ha illustrato lo studio di Mediobanca citato su questo giornale il 13 ottobre, hanno già messo circa 8mila miliardi nella fornace Alitalia.

Se questa volta la Commission­e non interverrà per far rispettare la legge e garantire la libera concorrenz­a, il Governo imporrà un accrocchio con l’intervento, a fianco delle Ferrovie e della Cdp in maggioranz­a, di un qualche operatore internazio­nale (Delta? Un cinese? Un altro mediorient­ale?) desideroso di aumentare la propria quota di mercato prendendo limitati rischi. Poi, dopo altre centinaia di milioni buttati via, si avrà un’ulteriore prova che tenere in vita un morto non è possibile; come se l’esperienza di questi 20 anni non fosse stata sufficient­e a dimostrarl­o. Imprendito­re, già responsabi­le di McKinsey

e fondatore della Bain, Cuneo e Associati

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