IL RUOLO DEI POLICY MAKER NELLE ACQUISIZIONI
Le recenti cessioni di Versace al gruppo americano Michael Kors e di Moto Morini a quello cinese Zhongneng Vehicle Group, nonché l’annuncio del passaggio della Candy ai cinesi di Haier, hanno fomentato i timori di depredazione straniera dei nostri marchi migliori e hanno riacceso il dibattito sulle modalità di sviluppo dell’industria italiana. Due visioni si contrappongono: da un lato, quella ottimistica di chi sottolinea il persistente valore del made in Italy, testimoniato anche dall’alta quotazione delle cessioni aziendali, che attrae gli acquirenti esteri e li induce comunque a lasciare qui la produzione, come si sono affrettati ad annunciare gli imprenditori cedenti dopo le operazioni sopra ricordate.
Dall’altro lato, si contrappone la visione preoccupata di quanti interpretano le frequenti acquisizioni estere come la manifestazione evidente del nostro declino industriale e dei limiti di sistema del Paese incapace di valorizzare le proprie eccellenze imprenditoriali. Si sottolinea lo stridente contrasto tra la qualità industriale riconosciuta a livello internazionale al made in Italy e la mancanza di un gioco di squadra in grado di valorizzarne le produzioni migliori attraverso poli di settore, magari costruiti intorno a campioni nazionali. Gli investimenti esteri in Italia non sono funzione della capacità attrattiva del Paese, che dovrebbe fondarsi sulle migliori condizioni comparativamente offerte agli investitori, ma dipendono piuttosto dalla debolezza nazionale a creare alternative utili ad anticipare il mercato aperto, anche per una certa reticenza (per debolezza finanziaria? Psicologica? Culturale?) del capitalismo domestico a investire e rischiare.
I takeover stranieri non rappresentano una categoria omogenea e i loro effetti vanno opportunamente esaminati caso per caso. Tuttavia, come recentemente evidenziato (Barbaresco, Matarazzo, Resciniti Le medie imprese acquisite dall’estero. Nuova linfa al Made in Italy o perdita delle radici? Franco Angeli Editore) sembrano possibili alcune riflessioni, al di là del fatto che le acquisizioni riguardano per lo più imprese con buone performance già sotto la proprietà italiana, che spesso migliorano ancora dopo la cessione senza che
LADDOVE SI CREA «PLUSVALORE DI TERRITORIO» L’OPZIONE DI VENDITA NON È CONVENIENTE
ciò vada a danno dell’occupazione.
Innanzitutto perché l’imprenditore vende, tanto più se la sua attività non è in declino? Riteniamo che egli percepisca la propria incapacità di estrarre tutto il potenziale che vede nella sua azienda, e ciò per due ordini di motivi: i limiti che l’imprenditore subisce dal contesto in cui opera, e che avverte come poco business friendly (incertezza e burocrazia), e quelli che l’imprenditore, magari inconsapevolmente, si è dato: governance chiusa e familismo. È dimostrato, infatti, da un’analisi di Mediobanca che le imprese che presentano professionalità esterne nel board direttivo, al fianco di quelle espressione della famiglia proprietaria, risultano mediamente più performanti. In queste condizioni, soprattutto di fronte a corrispettivi molto consistenti, la decisione di vendere è razionale e inoppugnabile.
Di natura diversa, invece, sono le riflessioni che incombono sui policy maker e sulle azioni che devono porre in essere. A essi compete la responsabilità di difendere il made in Italy, non solo in termini di localizzazione delle produzioni, ma anche in termini di go- verno delle imprese. Quando questo si sposta fuori confine con il trasferimento della proprietà, prima o poi i profitti possono essere indirizzati verso la casa madre, così come la scelta dei fornitori (di materie prime, semilavorati e servizi) e delle banche partner può rispondere alle logiche di scala della multinazionale acquirente che possono prevalere sulla preferenza verso quelli nazionali.
Dato che non ci si può opporre ex post a transazioni di mercato, i policy maker dovrebbero attivarsi perché non si creino ex ante le condizioni della vendita. Ossia generare quel “plusvalore di territorio” che derubrichi l’opzione di vendita a scelta economicamente non conveniente. E se proprio la vendita appare irrinunciabile, dovrebbero agevolare il reinserimento dei proventi ricavati nel circuito produttivo, in un sistema che premi finalmente il rischio d’impresa rispetto alla rendita finanziaria. Diversamente, per il nostro Paese al danno (di perdere le imprese) si associa la beffa (di perdere anche l’imprenditorialità).