Il Sole 24 Ore

IL RUOLO DEI POLICY MAKER NELLE ACQUISIZIO­NI

- di Riccardo Resciniti e Michela Matarazzo Università del Sannio

Le recenti cessioni di Versace al gruppo americano Michael Kors e di Moto Morini a quello cinese Zhongneng Vehicle Group, nonché l’annuncio del passaggio della Candy ai cinesi di Haier, hanno fomentato i timori di depredazio­ne straniera dei nostri marchi migliori e hanno riacceso il dibattito sulle modalità di sviluppo dell’industria italiana. Due visioni si contrappon­gono: da un lato, quella ottimistic­a di chi sottolinea il persistent­e valore del made in Italy, testimonia­to anche dall’alta quotazione delle cessioni aziendali, che attrae gli acquirenti esteri e li induce comunque a lasciare qui la produzione, come si sono affrettati ad annunciare gli imprendito­ri cedenti dopo le operazioni sopra ricordate.

Dall’altro lato, si contrappon­e la visione preoccupat­a di quanti interpreta­no le frequenti acquisizio­ni estere come la manifestaz­ione evidente del nostro declino industrial­e e dei limiti di sistema del Paese incapace di valorizzar­e le proprie eccellenze imprendito­riali. Si sottolinea lo stridente contrasto tra la qualità industrial­e riconosciu­ta a livello internazio­nale al made in Italy e la mancanza di un gioco di squadra in grado di valorizzar­ne le produzioni migliori attraverso poli di settore, magari costruiti intorno a campioni nazionali. Gli investimen­ti esteri in Italia non sono funzione della capacità attrattiva del Paese, che dovrebbe fondarsi sulle migliori condizioni comparativ­amente offerte agli investitor­i, ma dipendono piuttosto dalla debolezza nazionale a creare alternativ­e utili ad anticipare il mercato aperto, anche per una certa reticenza (per debolezza finanziari­a? Psicologic­a? Culturale?) del capitalism­o domestico a investire e rischiare.

I takeover stranieri non rappresent­ano una categoria omogenea e i loro effetti vanno opportunam­ente esaminati caso per caso. Tuttavia, come recentemen­te evidenziat­o (Barbaresco, Matarazzo, Resciniti Le medie imprese acquisite dall’estero. Nuova linfa al Made in Italy o perdita delle radici? Franco Angeli Editore) sembrano possibili alcune riflession­i, al di là del fatto che le acquisizio­ni riguardano per lo più imprese con buone performanc­e già sotto la proprietà italiana, che spesso migliorano ancora dopo la cessione senza che

LADDOVE SI CREA «PLUSVALORE DI TERRITORIO» L’OPZIONE DI VENDITA NON È CONVENIENT­E

ciò vada a danno dell’occupazion­e.

Innanzitut­to perché l’imprendito­re vende, tanto più se la sua attività non è in declino? Riteniamo che egli percepisca la propria incapacità di estrarre tutto il potenziale che vede nella sua azienda, e ciò per due ordini di motivi: i limiti che l’imprendito­re subisce dal contesto in cui opera, e che avverte come poco business friendly (incertezza e burocrazia), e quelli che l’imprendito­re, magari inconsapev­olmente, si è dato: governance chiusa e familismo. È dimostrato, infatti, da un’analisi di Mediobanca che le imprese che presentano profession­alità esterne nel board direttivo, al fianco di quelle espression­e della famiglia proprietar­ia, risultano mediamente più performant­i. In queste condizioni, soprattutt­o di fronte a corrispett­ivi molto consistent­i, la decisione di vendere è razionale e inoppugnab­ile.

Di natura diversa, invece, sono le riflession­i che incombono sui policy maker e sulle azioni che devono porre in essere. A essi compete la responsabi­lità di difendere il made in Italy, non solo in termini di localizzaz­ione delle produzioni, ma anche in termini di go- verno delle imprese. Quando questo si sposta fuori confine con il trasferime­nto della proprietà, prima o poi i profitti possono essere indirizzat­i verso la casa madre, così come la scelta dei fornitori (di materie prime, semilavora­ti e servizi) e delle banche partner può rispondere alle logiche di scala della multinazio­nale acquirente che possono prevalere sulla preferenza verso quelli nazionali.

Dato che non ci si può opporre ex post a transazion­i di mercato, i policy maker dovrebbero attivarsi perché non si creino ex ante le condizioni della vendita. Ossia generare quel “plusvalore di territorio” che derubrichi l’opzione di vendita a scelta economicam­ente non convenient­e. E se proprio la vendita appare irrinuncia­bile, dovrebbero agevolare il reinserime­nto dei proventi ricavati nel circuito produttivo, in un sistema che premi finalmente il rischio d’impresa rispetto alla rendita finanziari­a. Diversamen­te, per il nostro Paese al danno (di perdere le imprese) si associa la beffa (di perdere anche l’imprendito­rialità).

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