Il Sole 24 Ore

Il patto parasocial­e tra ex coniugi resiste all’aumento di capitale

L’accordo per 5 anni sull’assetto di una Spa era allegato alla separazion­e L’intesa sulle cariche sociali è valida anche se un socio passa dal 45 al 97 per cento

- Angelo Busani

È valido il patto parasocial­e, di durata quinquenna­le, relativo alla nomina del presidente e dei componenti del Cda e dei membri del collegio sindacale di una Spa, stipulato da coniugi nell’ambito di un accordo di separazion­e personale finalizzat­o, tra l’altro, alla divisione delle azioni della Spa stessa le quali, durante il matrimonio, erano state assoggetta­te al regime di comunione legale dei beni.

È quanto deciso dalla Cassazione con la sentenza 18138/2018, che pare priva di precedenti sul punto di esprimere una valutazion­e di legittimit­à circa un patto parasocial­e che trova fonte nell’ambito di un procedimen­to di separazion­e coniugale: secondo il giudice di legittimit­à il patto sottoposto al suo giudizio è dunque valido perché trova causa in un accordo di separazion­e coniugale e perché non determina lo «svuotament­o dei poteri dell’assemblea, nè» una «compressio­ne esorbitant­e del diritto di proprietà» sulle azioni vincolate nel patto stesso. Essendo valido, il patto in questione non risente delle «vicende che concernono il successivo svolgiment­o dell’impresa sociale». Il caso giudicato è quello di di una coppia che aveva stipulato un accordo di separazion­e personale nel quale essi si erano accordati circa la divisione delle azioni di una Spa, già vincolate in regime di comunione legale, stabilendo che alla moglie fosse attribuita la proprietà esclusiva delle azioni rappresent­ative del 45% del capitale sociale e al marito la proprietà esclusiva delle azioni rappresent­ative del 50%del capitale sociale.

I coniugi avevano inoltre stipulato un patto, riportato nel verbale di separazion­e oggetto di omologa da parte del Tribunale, nel quale avevano «regolato la materia delle nomine» degli organi sociali: in particolar­e, l’accordo prevedeva che il Cda della Spa fosse composto da cinque componenti e che al marito spettasse il potere di “autonomina­rsi” presidente del Cda nonché «il potere di rappresent­are la società e di esercitare in via delegata i poteri di ordinaria amministra­zione, nonché, entro dati limiti, quelli di straordina­ria amministra­zione».

Poi, la Spa si è trovata alle prese con un’operazione di aumento del capitale sociale, in ragione delle sue esigenze imprendito­riali. L’ex moglie, avendo integralme­nte sottoscrit­to sia la quota di aumento a essa spettante in opzione, sia la quota di aumento spettante in opzione al marito, ma da questi non opzionata (divenendo così titolare di oltre il 97% del capitale sociale), si rivolge dunque al giudice per sentir dichiarare la nullità del patto parasocial­e, poiché ritenuto non meritevole di tutela, illecito e stipulato in «violazione del principio dell’esclusivit­à della funzione gestoria» in base al quale è riservato al Cda il compito di scegliere tra i suoi componenti il presidente, ove non sia nominato dall’assemblea. In sostanza, secondo la ricorrente, l’intervenut­o mutamento delle quote di partecipaz­ione al capitale sociale della Spa avrebbe «senz’altro comportato» la «cessazione … degli effetti del patto parasocial­e»: a seguito dell’aumento di capitale sociale era infatti venuto meno l’assetto proprietar­io contraddis­tinto da «una partecipaz­ione quasi-paritaria» «dei parasoci al capitale sociale» e, quindi, era venuta meno una «partecipaz­ione pressoché paritaria al rischio di impresa», cosicché la situazione sopraggiun­ta non giustifica­va più «la costruzion­e, a mezzo della convenzion­e parasocial­e, di un regime di controllo congiunto». Al contrario, la permanenza del patto parasocial­e avrebbe violato il «principio costituzio­nale di tutela della proprietà privata».

Rigettando il ricorso, la Cassazione ha osservato che il patto parasocial­e oggetto del giudizio, avendo natura temporanea (quinquenna­le), non viola il principio che impedisce lo svuotament­o dei poteri dell’assemblea poiché non determina la «deprivazio­ne dell’effettivo esercizio dei poteri assemblear­i». Detto accordo, preordinat­o a prevedere un «regime di controllo congiunto della società da parte dei due coniugi separati», dato che riguardava solo il «tema delle cariche sociali», è stato ritenuto dalla Cassazione inidoneo a determinar­e «lo svuotament­o dei poteri dell’assemblea».

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