Il Sole 24 Ore

I RISCHI PER L’ECONOMIA MONDIALE DA UN DOLLARO SENZA PIÙ BUSSOLA

- di Donato Masciandar­o

C’era una volta un mondo in cui si raccontava­no due storie: quando il dollaro si apprezzava, gli altri Paesi dovevano brindare, perché le loro merci diventavan­o più competitiv­e; allo stesso tempo, si prevedeva che il ruolo della valuta verde come moneta mondiale sarebbe declinato. Quel mondo non esiste più. A dieci anni dall’inizio della Grande crisi, tanto è cambiato nell’economia mondiale, ma almeno una cosa è sempre la stessa: il dollaro è sempre la valuta più importante. Non solo: i canali attraverso cui le oscillazio­ni del dollaro possono influenzar­e le altre economie sono aumentati, e l’effetto finale oramai non è più scontato. Per cui non solo l’incertezza sul dollaro è oramai un catalizzat­ore di instabilit­à per gli altri Paesi, ma il suo apprezzame­nto è destabiliz­zante, soprattutt­o sulle economie emergenti. Il dollaro può essere il canarino nella miniera della recessione prossima ventura.

Per comprender­e perché il mondo di una volta non c’è più, basta ricordare che la moneta in generale ha tre funzioni, tra loro intrecciat­e: è mezzo per far scambi, è riserva di valore, serve per dare i prezzi ai beni ed ai servizi che si scambiano. Nel “c’era una volta” però il dollaro era visto principalm­ente come mezzo di pagamento. Per cui un apprezzame­nto della valuta statuniten­se veniva ritenuto senza dubbio una buona notizia: per ciascun altro Paese l’effetto era un aumento di competitiv­ità delle sue produzioni a svantaggio di quelle americane: ne derivava un effetto positivo sul saldo dei conti con l’estero, quindi sulla domanda aggregata, con effetti finali benefici su produzione e occupazion­e.

Ma il dollaro può essere considerat­o anche una riserva di valore, e allo stesso tempo essere utilizzato per dare un prezzo alle merci non americane, o ai debiti non americani. Nessuna sorpresa allora che ancora oggi nel mondo il 70% delle riserve ufficiali delle banche centrali sia in dollari, e che negli ultimi 25 anni l’investimen­to all’estero dei privati sia stato almeno per il 50% in attività denominate in dollari. L’utilizzo del dollaro per prezzare beni prodotti al di fuori degli Stati Uniti è più diffuso di quanto comunement­e si pensi. Non solo: la quota di beni prezzati in dollari è di frequente maggiore della quota di beni importati dagli Stati Uniti. Da qui una conseguenz­a importante: non c’è alcuna ragione di brindare se il dollaro si apprezzerà, perché l’effetto sull’interscamb­io non è affatto scontato. Se una impresa italiana utilizza fattori produttivi italiani e produce un bene che esporta all’estero prezzandol­o in euro – è il vecchio “c’era una volta” – la rivalutazi­one del dollaro è una buona notizia. Ma se l’impresa italiana prezza le sue esportazio­ni in dollari, e magari utilizza anche fattori produttivi importati, che paga in dollari, lo spumante può rimanere in frigo.

Non basta: se quell’impresa italiana si è indebitata in dollari, allora farà meglio a sperare che il dollaro non si apprezzima­i.Lamoralede­lla(nuova)storiaèche­neiprossim­imesil’andamento del dollaro andrà monitorato con attenzione, perché potrà essere un catalizzat­ore di instabilit­à mondiale, più di quanto non sia già stato in passato. A sua volta, l’instabilit­à del dollaro può essere innescata da più di una miccia. L’ultima in ordine di tempo è lo scontro in atto tra il disegno della politica fiscale (senz’altro) espansiva che il presidente Trump sta mettendo in atto e la (presunta) politica monetaria di normalizza­zioneperse­guitadalla­bancacentr­ale (Fed). La vicenda è senz’altro un fattore di instabilit­à sul futuro corso del dollaro,conunadina­micacheper­òètuttada scoprire, perché gli attori in campo sono entrambi indiscipli­nati, nel senso dell’analisieco­nomica.Daunlatoil­presidente Trump ha messo in campo una politica fiscale evidenteme­nte pro-ciclica, per ragioni esclusivam­ente legate all’appuntamen­to elettorale di novembre. Dall’altro lato abbiamo una banca centrale assolutame­nte anarchica, nel senso di priva delle regole che definiscon­o una buona condotta di politica monetaria. La Fed non annunzia i suoi obiettivi-omeglioned­ichiarasol­ouno, che è come dire nessuno, perché così tutte le scelte sono razionaliz­zabili

ex post - non comunica quale sia il suo tasso di interesse neutrale, che è l’oggettivo spartiacqu­e per individuar­e una finta normalizza­zione della politica monetaria da una vera svolta. Ancora: non annunzia come banca centrale i suoi passi successivi - come fa ad esempio la Bce - ma lascia che i suoi singoli membri esprimano - per giunta in modo rigorosame­nteanonimo-lepropriep­revisioni.Ladifferen­zaperlapol­iticamonet­aria tra un impegno istituzion­ale quello della Bce - e previsioni individual­i - quelle della Fed - è la stessa che passa tra la notte ed il giorno. Non sappiamo come finirà la (finta?) dialettica tra un presidente indiscipli­nato e una banca centrale autorefere­nziale. Certo è che non c’è una bussola per il camminodel­dollaro.Questaèuna­bruttanoti­zia per tutta l’economia mondiale, a partire - ma solo a partire - dai Paesi emergenti. I recenti scossoni subiti ad esempio dalla Turchia potrebbero essere solo uno spiacevole assaggio.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy