Il Sole 24 Ore

Lode al vino, dolce nettare del padre Noè

Trattati. La prima traduzione italiana del «Laus vini» del bizantino Michele Psello che esalta la bevanda di origini divine e afferma: il dio inventore non fu Bacco

- Di Tullio Gregory

La seconda età del mondo – nella tradizione esegetica medioevale – inizia con la fine del diluvio, quando Noè, uscito dall’arca, pianta la vite, produce il vino e si inebria. Non dunque, come volevano i pagani, Bacco è l’auctor

vini, ma Noè, l’uomo giusto che ha salvato con l’arca – costruita secondo le prescrizio­ni di Javhé – tutte le specie viventi e, con la sua famiglia, l’umanità.

Ma perché, si chiede Ambrogio in un testo sul quale ebbe a richiamare l’attenzione Paul Tombeur, perché da homo iustus, Noè ha piantato la vite e non l’orzo o il frumento pur necessari alla vita dell’uomo? Risponde Ambrogio: proprio perché giusto si è preoccupat­o delle cose voluttuari­e, sapendo che Dio provvede alle necessarie.

Il mito della piantagion­e della vigna, della produzione del vino e della ebbrezza di Noè agli inizi della storia dell’umanità dopo il diluvio, assicura al vino una posizione centrale in tutta la storia della civiltà cristiana. Non a caso proprio dal diluvio muove l’Encomio del vino del dotto bizantino Michele Psello (1018 – 1078/96), scritto attorno al 1042: l’età nuova, la nuova creazione inizia con la coltivazio­ne della vite e la produzione del vino perché si tratta di un “bene eccellente”, di un dono del quale erano privi gli uomini della precedente generazion­e in quanto malvagi e destinati a essere distrutti dal diluvio. Per questo, sostiene Psello, Noè è come Adamo al quale disputa il primato per il bene che ha fatto all’umanità: Noè, scrive, «si disputa il primato con il progenitor­e Adamo o piuttosto si potrebbe affermare che non gli cede il posto; entrambi infatti trovarono una pianta, nel primo caso era rovinosa e mortifera, nel secondo utile e generatric­e di vita».

L’Encomio di Psello si inserisce in una grande tradizione encomiasti­ca greca e è stato opportunam­ente tradotto per la prima volta in italiano da Lucio Coco, specialist­a di civiltà bizantina. Ed ecco in apertura la celebrazio­ne del vino: «Io credo che il vino è quanto di meglio gli uomini hanno trovato per il loro sostentame­nto e, risultando massimamen­te utile, a noi soli in particolar­e la natura lo ha assegnato (o piuttosto Dio che ha creato la natura) […]. Il vino è una cosa buona in ogni occasione e per tutti: per chi è di buon umore è un ausilio all’intensific­azione dell’allegria; è buono per chi è sano per la conservazi­one della salute; è una consolazio­ne per chi è depresso ed è una cura per chi è malato […]. In pace è un contributo, in guerra è un alleato; niente senza il vino, né feste nunziali, né banchetti, né conviti, né divertimen­ti, né svaghi […]. Il vino rallegra il cuore, incita alla gratitudin­e, muove al canto, genera commozione e richiama le lacrime che rendono propizio Dio».

Si accompagna a questo encomio del vino l’elogio dei sensi che più sono impegnati nel degustarlo, l’olfatto e il gusto; più importanti della stessa vista il cui primato era celebrato in tutta la tradizione filosofica, soprattutt­o platonica.

Del resto proprio la produzione e l’uso del vino – insieme all’esercizio della ragione – costituisc­ono la differenza fra gli uomini e gli animali: «come infatti – scrive Psello – dal punto di vista dell’anima dif

feriamo dagli animali irrazional­i a

motivo della ragione, così anche il vino per ciò che riguarda il regime alimentare».

Per questo, prosegue Psello, «se qualche bevitore di acqua (vale a dire un idropico e un demente) afferma: “è possibile vivere anche senza il vino”, non avremo niente da obiettare né avremo bisogno di replicare a costui che fa a gara con l’evidenza e che manca di sensibilit­à, avendo scelto di vivere alla pari anche delle bestie nella volgarità e nella vanità».

È significat­ivo che in questo Encomio del vino si alternino e si accostino testimonia­nze di autori pagani, ebraici e cristiani, tutti concordi nel celebrare le lodi del vino, la sua dignità, la sua origine divina: a Dioniso si accosta Noè, all’Ecclesiast­e Omero, a Mosè Platone, a San Paolo Aristotele, così da sottolinea­re l’omogeneità e la continuità della tradizione mediterran­ea nell’esaltare il vino come fonte di salute e di gioia, dono di Dioniso o di Jahvè.

L’importanza del vino nella civiltà greca per i suoi valori terapeutic­i, euforizzan­ti, simbolici è nota: basti pensare all’irrompere drammatico e entusiasma­nte di Dioniso e alla diffusione dei culti dionisiaci nel mondo greco, così come alla centralità del simposio nella vita civile e culturale con i suoi riti legati alla mescita e al consumo del vino (si ricordi il Simposio di Platone). Ma esso è investito di un nuovo, particolar­e valore nel cristianes­imo per i simboli di cui si carica nel Nuovo Testamento e che ne assicurano la continua presenza nella cultura cristiana. Il vino assume la sua centralità nel momento in cui, con l’ultima cena, diviene il simbolo del sangue di Cristo, del suo sacrificio, del prezzo pagato per il riscatto dei molti. Di qui spontanea la presentazi­one della figura di Noè come anticipazi­one allegorica di Cristo. Scriverà San Cipriano: «Noè, manifestan­do la verità futura, non bevve acqua ma vino, raffiguran­do così la passione di Cristo»; si canta nello Stabat Mater: «fa che io sia ubriaco della croce e del sangue del tuo figlio».

Tutta la vita di Noè prefigura la vita di Cristo, anzi è la figura di Cristo: Noe igitur Christus. La piantagion­e della vite, l’ubriachezz­a, la nudità di Noè sono per Agostino prefiguraz­ione della vita di Cristo, fino al sacrificio estremo (denudatus), mentre la piantagion­e della vite significa e annuncia la chiesa, costanteme­nte paragonata alla vigna del Signore; la stessa vite diviene anticipazi­one allegorica di Cristo – vitis allegorice significat Christum – e si identifica con l’albero della vita piantato nel paradiso terrestre: «Gesù benigno, vera vite, albero della vita piantato in mezzo al paradiso», si legge in un testo dal titolo significat­ivo Vitis mystica (sec. XIII). Il gioco di parole vitis/vita è costante: «la vite dà la vita perché il vino è vita» scrive Alessandro Neckam, e un diffuso proverbio recitava, «il vino che proviene dalla vite ci dona le gioie della vita».

Temi tutti che ritornano nell’Encomio di Psello con grande efficacia: «una sola cosa dirò tra le altre, quella più importante e incontesta­bile da parte degli stessi scettici: niente in assoluto è migliore del vino né equivalent­e a esso, rappresent­ando il sangue divino nei mistici sacrifici, la purificazi­one dal peccato e la salvezza di tutto il cosmo».

Non è quindi un caso se Psello – celebrando il vino come «la cosa più nobile e insieme la più amabile e la più idonea per la cura del nostro corpo» – applichi a questo dono «insuperabi­le e incomparab­ile» quanto Platone nel Timeo diceva della filosofia «della quale non venne nessun bene maggiore al genere mortale come dono largito dagli dei». Anche per Agostino il vino costituiva un munus dei, dato in iucunditat­em – aveva scritto Ambrogio – per la gioia degli uomini, per l’esaltazion­e dell’anima e del cuore. Di qui a prefigurar­e la beatitudin­e celeste il passo è breve: allora saremo «inebriati del vino di eterna dolcezza».

Il testo accosta autori pagani, ebraici e cristiani che ne celebrano qualità e proprietà

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 ??  ?? In cantina Giacomo Ceruti, detto Pitocchett­o (1698-1767), «Gli spillatori di vino», (particolar­e), collezione privata
In cantina Giacomo Ceruti, detto Pitocchett­o (1698-1767), «Gli spillatori di vino», (particolar­e), collezione privata

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