Imprese strette nella morsa tra credit crunch e rialzo dei tassi
Prima una, poi due, timidamente, che servono a rompere il ghiaccio. Ma alla fine le mani alzate sono quasi una decina, più del 10% tra le imprese in sala. Sondaggio volante, realizzato tra le fonderie italiane riunite per l’assemblea annuale, che non ha certo il valore di una statistica nazionale e che tuttavia segnala l’esistenza di un problema: l’accesso al credito inizia a complicarsi.
Se nei numeri ufficiali il valore dei tassi di interesse resta a ridosso dei minimi storici, i primi segni di un’inversione di rotta iniziano a palesarsi. La stessa Banca d’Italia, del resto, nel proprio bollettino economico segnala il fatto che nel terzo trimestre le condizioni di accesso al credito bancario sarebbero lievemente peggiorate, mentre i dati Istat di settembre per le imprese manifatturiere sono più eloquenti. Il saldo tra risposte positive e negative, con riguardo al credito, è in rosso di cinque punti: il dato peggiore da settembre 2014. A segnalare un rapporto più fluido con le banche è solo il 3,7% degli intervistati, quasi la metà rispetto a marzo. Al contrario, quasi nove imprenditori su 100 registrano un irrigidimento: un valore più alto si trova solo alla fine del 2016. I primi racconti di aumenti significativi dei tassi o di richieste di rientro sui fidi di cassa (si veda il Sole 24 Ore del 13/10) sono già visibili e anche se al momento non si tratta di un fenomeno di massa il trend pare avviato. «Vedo tre elementi di preoccupazione che si saldano per creare uno scenario preoccupante - spiega il vicepresidente della Piccola Industria di Confindustria con delega alla finanza Aldo Ferrara - con potenziali rischi per le imprese. L’aumento dello spread si tradurrà certamente in costi di finanziamento maggiori per le banche, così come a contribuire in questo senso sarà la fine del Qe. E se l’idea del Governo è quella di gettare sul sistema del credito maggiori oneri, è inevitabile che parte di questi si scarichino a valle, sulle imprese».
I meccanismi di trasmissione sono noti e già visibili nei conti trimestrali degli istituti, dove la perdita di valore dei titoli di Stato detenuti in portafoglio inizia ad intaccare il patrimonio, che indebolendosi riduce la flessibilità nelle erogazioni a valle. Difficile che i numeri del quarto trimestre possano essere migliori, dopo il downgrade di Moody’s che ha avvicinato al baratro del livello junk i nostri titoli, peraltro già ampiamente sotto pressione al dispiegarsi dei dettagli della manovra, con uno spread arrivato ormai quasi al triplo dei livelli pecedenti la formazione del Governo. Che sia colpa di George Soros o il risultato di un complotto internazionale, come sostiene spesso l’esecutivo o piuttosto l’esito scontato di un nuovo riprezzamento del rischio-Italia, come ritiene la stragrande maggioranza degli osservatori (e anche, per quello che conta, il sottoscritto), in fondo poco importa: se questo trend non si inverte al più presto, il costo del credito salirà. Riportando indietro le lancette ad un passato recente per nulla rassicurante e gettando nuova sabbia negli ingranaggi competitivi delle aziende, che in parallelo sono alle prese con gli interventi di recupero crediti degli Npl smobilizzati dalle banche e ora in carico a fondi e società di recupero. Per comprendere i rischi potenziali basta dare un’occhiata ai tassi in Germania. Dopo anni di Qe e stabilità finanziaria in Italia, i tassi che oggi in media pagano i nostri imprenditori sono in linea o addirittura più bassi rispetto a quelli degli omologhi concorrenti di Berlino: nei prestiti “light” lo spread è a nostro favore per nove punti base, nelle taglie maggiori siamo più cari solo dello 0,2%.
Una novità, rispetto ad un passato (prendiamo ad esempio il 2013) in cui il gap a nostro sfavore sfiorava i 160 punti base. Solo numeri? Mica tanto. Significa che per ogni milione di euro preso a prestito, l’impresa italiana rispetto a quella tedesca disponeva di 16mila euro in meno per investire, remunerare il lavoro, innovare.
Maggiori oneri che su base macro assumono dimensioni altrettanto preoccupanti. Oggi i tassi sono a ridosso dei minimi storici: ai livelli attuali (1,55% l’ultima rilevazione Bankitalia di agosto) i 21,7 miliardi erogati dalle banche due mesi fa generano su base annua per le imprese un onere di 336 milioni, un terzo rispetto a quanto sarebbe accaduto per lo stesso importo alla fine del 2011, nel pieno della crisi.
Se la reattività è massima per i tassi sulle nuove operazioni di finanziamento, occorre poi considerare l’effetto di trascinamento sulle masse prese a prestito e anche in questo caso sono più che apprezzabili i vantaggi ottenuti nel tempo. Il tasso medio sulle consistenze, mese dopo mese si è sgonfiato per includere i nuovi prestiti “low-cost”, arrivando oggi al minimo del 2,11%. A questi livelli, su base annua l’onere finanziario per le imprese, relativo ai 696 miliardi di euro presi a prestito dal sistema bancario, è di 15 miliardi. La stessa massa di prestiti, se si tornasse ai picchi del 2011, costerebbe invece su base annua 13 miliardi in più. Arriveremo lì? Per ora il convoglio è solo avviato in quella direzione, con le imprese più solide ancora in grado di spuntare condizioni ottime. «Abbiamo appena preso un prestito a quattro anni allo 0,7% a tasso fisso - spiega Paolo Fedegari, ad dell’omonima azienda meccanica pavese - ma le banche ci hanno già avvisato: così non dura, gli aumenti stanno per arrivare».
Negli ultimi anni si era annullata la forbice del credito con la Germania: ora si teme un nuovo gap competitivo