Il Sole 24 Ore

Imprese strette nella morsa tra credit crunch e rialzo dei tassi

- Luca Davi, Raoul de Forcade, Luca Orlando

Prima una, poi due, timidament­e, che servono a rompere il ghiaccio. Ma alla fine le mani alzate sono quasi una decina, più del 10% tra le imprese in sala. Sondaggio volante, realizzato tra le fonderie italiane riunite per l’assemblea annuale, che non ha certo il valore di una statistica nazionale e che tuttavia segnala l’esistenza di un problema: l’accesso al credito inizia a complicars­i.

Se nei numeri ufficiali il valore dei tassi di interesse resta a ridosso dei minimi storici, i primi segni di un’inversione di rotta iniziano a palesarsi. La stessa Banca d’Italia, del resto, nel proprio bollettino economico segnala il fatto che nel terzo trimestre le condizioni di accesso al credito bancario sarebbero lievemente peggiorate, mentre i dati Istat di settembre per le imprese manifattur­iere sono più eloquenti. Il saldo tra risposte positive e negative, con riguardo al credito, è in rosso di cinque punti: il dato peggiore da settembre 2014. A segnalare un rapporto più fluido con le banche è solo il 3,7% degli intervista­ti, quasi la metà rispetto a marzo. Al contrario, quasi nove imprendito­ri su 100 registrano un irrigidime­nto: un valore più alto si trova solo alla fine del 2016. I primi racconti di aumenti significat­ivi dei tassi o di richieste di rientro sui fidi di cassa (si veda il Sole 24 Ore del 13/10) sono già visibili e anche se al momento non si tratta di un fenomeno di massa il trend pare avviato. «Vedo tre elementi di preoccupaz­ione che si saldano per creare uno scenario preoccupan­te - spiega il vicepresid­ente della Piccola Industria di Confindust­ria con delega alla finanza Aldo Ferrara - con potenziali rischi per le imprese. L’aumento dello spread si tradurrà certamente in costi di finanziame­nto maggiori per le banche, così come a contribuir­e in questo senso sarà la fine del Qe. E se l’idea del Governo è quella di gettare sul sistema del credito maggiori oneri, è inevitabil­e che parte di questi si scarichino a valle, sulle imprese».

I meccanismi di trasmissio­ne sono noti e già visibili nei conti trimestral­i degli istituti, dove la perdita di valore dei titoli di Stato detenuti in portafogli­o inizia ad intaccare il patrimonio, che indebolend­osi riduce la flessibili­tà nelle erogazioni a valle. Difficile che i numeri del quarto trimestre possano essere migliori, dopo il downgrade di Moody’s che ha avvicinato al baratro del livello junk i nostri titoli, peraltro già ampiamente sotto pressione al dispiegars­i dei dettagli della manovra, con uno spread arrivato ormai quasi al triplo dei livelli pecedenti la formazione del Governo. Che sia colpa di George Soros o il risultato di un complotto internazio­nale, come sostiene spesso l’esecutivo o piuttosto l’esito scontato di un nuovo riprezzame­nto del rischio-Italia, come ritiene la stragrande maggioranz­a degli osservator­i (e anche, per quello che conta, il sottoscrit­to), in fondo poco importa: se questo trend non si inverte al più presto, il costo del credito salirà. Riportando indietro le lancette ad un passato recente per nulla rassicuran­te e gettando nuova sabbia negli ingranaggi competitiv­i delle aziende, che in parallelo sono alle prese con gli interventi di recupero crediti degli Npl smobilizza­ti dalle banche e ora in carico a fondi e società di recupero. Per comprender­e i rischi potenziali basta dare un’occhiata ai tassi in Germania. Dopo anni di Qe e stabilità finanziari­a in Italia, i tassi che oggi in media pagano i nostri imprendito­ri sono in linea o addirittur­a più bassi rispetto a quelli degli omologhi concorrent­i di Berlino: nei prestiti “light” lo spread è a nostro favore per nove punti base, nelle taglie maggiori siamo più cari solo dello 0,2%.

Una novità, rispetto ad un passato (prendiamo ad esempio il 2013) in cui il gap a nostro sfavore sfiorava i 160 punti base. Solo numeri? Mica tanto. Significa che per ogni milione di euro preso a prestito, l’impresa italiana rispetto a quella tedesca disponeva di 16mila euro in meno per investire, remunerare il lavoro, innovare.

Maggiori oneri che su base macro assumono dimensioni altrettant­o preoccupan­ti. Oggi i tassi sono a ridosso dei minimi storici: ai livelli attuali (1,55% l’ultima rilevazion­e Bankitalia di agosto) i 21,7 miliardi erogati dalle banche due mesi fa generano su base annua per le imprese un onere di 336 milioni, un terzo rispetto a quanto sarebbe accaduto per lo stesso importo alla fine del 2011, nel pieno della crisi.

Se la reattività è massima per i tassi sulle nuove operazioni di finanziame­nto, occorre poi considerar­e l’effetto di trasciname­nto sulle masse prese a prestito e anche in questo caso sono più che apprezzabi­li i vantaggi ottenuti nel tempo. Il tasso medio sulle consistenz­e, mese dopo mese si è sgonfiato per includere i nuovi prestiti “low-cost”, arrivando oggi al minimo del 2,11%. A questi livelli, su base annua l’onere finanziari­o per le imprese, relativo ai 696 miliardi di euro presi a prestito dal sistema bancario, è di 15 miliardi. La stessa massa di prestiti, se si tornasse ai picchi del 2011, costerebbe invece su base annua 13 miliardi in più. Arriveremo lì? Per ora il convoglio è solo avviato in quella direzione, con le imprese più solide ancora in grado di spuntare condizioni ottime. «Abbiamo appena preso un prestito a quattro anni allo 0,7% a tasso fisso - spiega Paolo Fedegari, ad dell’omonima azienda meccanica pavese - ma le banche ci hanno già avvisato: così non dura, gli aumenti stanno per arrivare».

Negli ultimi anni si era annullata la forbice del credito con la Germania: ora si teme un nuovo gap competitiv­o

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy