Il Sole 24 Ore

LA SIMULAZION­E DIGITALE DÀ VITA AL SIMREALISM­O

- Luca De Biase

Immersi nella realtà rigenerata con i media digitali, gli umani del XXI secolo sentono di attraversa­re una profonda mutazione, non soltanto tecnica o economica, ma anche antropolog­ica, se non addirittur­a anatomica. E non cessano di cercare strade per “digerire” culturalme­nte questa trasformaz­ione. Di fronte a questa urgenza, le tentazioni non mancano: ci sono le scorciatoi­e tracciate dall’entusiasmo aprioristi­co per la tecnologia e quelle speculari influenzat­e dallo scetticism­o banalizzan­te per ogni novità ambiziosa. L’esigenza di trovare un percorso equilibrat­o, culturalme­nte ricco e generativo, è necessaria. La ricerca artistica è una strada fondamenta­le. Perché l’estetica è l’indagine intorno alla percezione, che è la capacità di riconoscer­e senso nei dati sensoriali e che viene influenzat­a in modo profondo dalla struttura dei media, come ha ricordato nel suo recente intervento all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles Mauro Carbone, docente di estetica all’Università Jean Moulin di Lione. Ebbene, quali conoscenze emergono dalla ricerca artistica intorno alla questione della trasformaz­ione tecnologic­a?

Se è evidente che il digitale non è più una novità ma una realtà immersiva, che aumenta e insieme amputa le capacità percettive umane, ci si può aspettare che la ricerca artistica non sia interessat­a soltanto all’utilizzo delle tecnologie per generare opere, ma sia già passata al prossimo livello. Consapevol­i del legame inestricab­ile tra digitale e sociale, come dice Simone Arcagni nel suo “L’occhio della macchina” (Einaudi 2018), interessat­i alla relazione simbiotica tra macchine e umani, alcuni artisti cominciano ad alimentare la cultura di domande e risposte epocali, anticipand­o la consapevol­ezza generalizz­ata ma nello stesso tempo stimolando­la e influenzan­dola. E se ne vedono tracce affascinan­ti a Low Form, la mostra appena inaugurata al Maxxi di Roma e curata dal direttore Bartolomeo Pietromarc­hi.

C’è un filo che unisce i lavori di artisti come Carola Bonfili o Ian Cheng, Cheiney Thompson o Trevor Paglen e Jon Rafman. C’è un genietto digitale nelle loro opere, c’è un metodo tecnologic­o che le genera: può essere un’intelligen­za artificial­e che prende in pasto un insieme di immagini e ne produce una di sintesi, come in Paglen; può essere un algoritmo che gestisce grandi moli di dati e le visualizza, come in Thompson; può essere un motore usato per la creazione di videogioch­i che diventa la regola di un ecosistema simulato nel quale si svolge una storia infinita, come in Cheng; può essere un ambiente virtuale che riflette un’esperienza letteraria come nel lavoro di Bonfili. Può forse apparire vagamente ambigua un’opera nella quale lo strumento può contribuir­e a decidere la forma emergente: ma agendo in questo modo questi artisti svelano la pluralità delle dimensioni umane della loro arte, collettiva e individual­e nello stesso tempo. E poiché la macchina non si ferma mai, aggregando in rete le esperienze di tutti gli umani connessi, rende necessario lo sviluppo di consapevol­ezze nuove, parallele alla scoperta dell’esistenza di una nuova dimensione dell’inconscio collettivo, riflette Giovanna Melandri, presidente del Maxxi. Ma dal punto di vista artistico è un’esperienza che ricorda il surrealism­o, dice Pietromarc­hi: in una nuova forma che, facendo tesoro della cultura della simulazion­e tipica del digitale, diventa “simrealism­o”. Una sfida che non si può ignorare.

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