Attraverso il graticcio del radioapparecchio
Carlo Emilio Gadda. Nel ’50 lo scrittore lavora alla Rai, ha l’ingrato compito di adattare testi di illustri collaboratori: il microfono impone «cose piane, esplicite; frasi brevi, eloquio vulgabile». Con «corrotta sapienza» linguistica stila una guida di
Cauteloso e guardingo come sempre, e quasi rattrappendosi dentro una parentesi che fa quadrato al suo azzardo di pavido deferente e cerimonioso, Carlo Emilio Gadda, il 22 maggio 1951, scrisse a Leone Traverso: «Ti chiedo umilmente perdono se ho osato, [in un’ora di impazienza
non verso di te, ma verso il terzo programma, che sempre mi muove rimproveri circa le difficoltà dei testi], spezzare o comunque contaminare la prima pagina di entratura, di apertura, del tuo ottimo Benn». Già da un anno, Gadda si era trasferito a Roma da Firenze. Lavorava alla Radio. E nei suoi ilari furori amava fantasticarsi in divisa di «burocrate schiacciato e bistrattato»: lavorava tutto il giorno, per ritirarsi in serata «in una camera d’affitto, col solito vedovone singhiozzante (una afrosa megera, specie nelle ore mattutine) e con un cane puzzolente». L’avrebbe strozzata, la vecchia; temeva però gli irosi carabinieri e i severi tribunali. Sul suo tavolo di lavoro, in redazione, arrivavano i testi letterari, i dattiloscritti dei radiocollaboratori. Lui aveva il compito di rivederli (anche pesantemente), in modo da renderli compatibili con le esigenze della lettura da trasmettere attraverso il «graticcio del radioapparecchio». Il microfono imponeva «cose piane, esplicite»; «frasi brevi, eloquio vulgabile». Il compito di Gadda era oneroso; e richiedeva doti persuasivamente diplomatiche nella corrispondenza con gli illustri collaboratori: scrittori e critici da convertire alla fluidità del linguaggio radiofonico. E infatti Gadda aveva sottoposto a lifting un testo di Traverso su Gottfried Benn, mettendo sul conto delle vessazioni dei superiori la sua disperata «impazienza» di castigatore delle ambagi sintattiche.
Nel 1953 la RAI affidò a Gadda la stesura di un prontuario singolarmente didattico per guidare i collaboratori dei programmi culturali alla preparazione di scritti destinati a essere mandati in onda. Il ricettario veniva allegato ai contratti. Metteva a titolo l’incipit: Inderogabili norme e cautele. E portava in calce, al posto della firma, la dicitura «Il Terzo Programma». Il nome di Gadda comparve nell’edizione ERI del 1973, introdotta da Leone Piccioni. Adesso il trattatello è riproposto da Adelphi, a cura di Mariarosa Bricchi, che ripropone il titolo della seconda edizione (Norme per la redazione di un testo radiofonico) ma reintroduce le scelte grafiche della edizione anonima funzionali al disegno architettonico del testo suddiviso in soppalchi.
L’apertura è rumorosamente normativa, scandita com’è su un battere
L’ingegnere scrittore Carlo Emilio Gadda a Roma nel 1958
accanito, come bacchettando: «Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predispone, scrivendolo, un testo per la Radio. La mancata osservanza di dette norme e cautele, può rendere “intrasmissibile” uno scritto anche se per altri aspetti eccellente. La Direzione del Programma si viene a trovare, in tal caso, nella ingrata condizione di non poterlo mandare in onda. Notiamo che le regole fondamentali del parlato radiofonico esprimono una esigenza tecnica – intrinseca adattabilità dello scritto al mezzo che lo diffonde – oltreché un diritto economico e mentale del radioascoltatore, il quale, pagando un “servigio”, chiede che questo “servigio” venga reso nei termini dovuti. Per il radioascolto i termini sono: accessibilità fisica, cioè acustica, e intelligenza della radiotrasmissione, chiarezza, limpidità del dettato, gradevole ritmo».
Ci si rivolge al pubblico. È un modo di dire. In effetti il pubblico di ascoltatori è fatto di «persone singole»: di unità separate, talvolta in compagnia di qualche parente. Chi ascolta, più o meno solitario, seduto in poltrona, non segue per oltre un quarto d’ora; e purché il radiocollaboratore non abbia presunzioni pedagogiche e non ricorra ad affollamenti indigesti di «idee», parentesi, incisi, e mostruosità come l’indicativo remoto «svelsero»: «Tali mostri sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità congenita». Ai quindici minuti d’ascolto «corrispondono centottanta righi dattiloscritti». Non di più. A meno che la trasmissione non preveda movimenti dialogici.
Per scrivere tali «norme», Gadda studiò con diligenza (come dimostra l’ottima e imprescindibile Postfazione della Bricchi) libretti e libri che circolavano sul linguaggio radiofonico; soprattutto l’opuscolo Il Giornale Radio. Guida pratica per quelli che parlano alla Radio e per quelli che l’ascoltano pubblicato nel 1948 da Antonio Piccone Stella, e persino un saggio di Giacomo Devoto dedicato all’analisi linguistica del Castello di Udine dello stesso Gadda. Ma tutto questo avrebbe ben poco di Gadda, se nel manualetto non si avvertisse la consueta «corrotta sapienza» linguistica del grande scrittore che sapeva come molestare con il falsetto l’irritante accademismo. Ne è esempio eclatante questo brano: «Non v’ha chi non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che si debba ricusare di respingere una sistemazione che non torna certo a disdoro della Magnifica Comunità di Ampezzo». O quest’altro: «Il veleno del dubbio e per contro il timore del peggio si erano insinuati fin dal vecchio tempo, e in ogni modo dopo il recente conflitto, non forse nell’insicuro pensiero ma certo nel tremante cuore del popolano di borgo e del valvassore di castello in tutto il territorio», con quel cha ancora sfacciatamente segue.
E poi non c’è qualcosa di delittuoso con cui il linguaggio di Gadda sembra venire alle mani? Ci sono collaboratori della RAI che con il loro «commento critico» ammazzano i brani letterari che citano. Fanno in modo che il «quadro» venga «sopraffatto dalla cornice». Gadda non si trattiene. Sbotta, usando un corsivo di rabbia e di minaccia; e puntando il dito: «L’espositore non prevalga sulla sua vittima!».
Accade che si commemorino i protagonisti della letteratura. Ebbene, il presentatore si dà all’attentato: «insabbia» l’effigie del commemorato «col polverino della propria autorità»; e con il suo «eccesso di autorevolezza», ironicamente corsivata, cancella «quelle fattezze appunto alle quali si voleva conferire evidenza e risalto».
NORME PER LA REDAZIONE DI UN TESTO RADIOFONICO
Carlo Emilio Gadda a cura di Mariarosa Bricchi, Adelphi, Milano, pagg. 56, € 6