La dimensione transnazionale del New Deal
Kiran Klaus Patel. Una strategia simile a quella dell’intervento pubblico seguito alla crisi del ’29 si attuò in Europa, Giappone e America Latina
DDel New De al, dei provvedi menti adottati dal presidente Franklin Delano Roosevelt per risollevare gli Stati Uniti dalle micidiali conseguenze economiche e sociali provocate dal crollo di Wall S tre et dell’ ottobre 1929, gran parte della letteratura storiografica americana ha continuato a dare per lo più una versione concentrata esclusivamente su una dimensione nazionale e unilaterale. Co mese la politica d’ intervento pubblico varata dal 1933, col National Recovery Ac te un corollario di disposizioni legislative perla promozione di grandi opere pubbliche, al fine di riassorbir elevaste sacche di disoccupazione e d’ impoverimento, fosse stata una strategia inaugurata e perseguita unicamente o quasi, con altrettanta sagacia che efficacia, dal governo federale di Washington.
In realtà un indirizzo analogo venne praticato negli anni 30, sia pure con le debite varianti, dalle nazioni europee (nonché dal Giappone e da alcuni Paesi dell’America latina) nel mezzo di una crisi altrimenti insuperabile in base ai principi tradizionali dell’economia di mercato, di stampo liberista. Poiché, all’origine di quel disastro economico, non furono soltanto le scosse che travolsero il mondo finanziario americano ma pure le pesanti difficoltà e lo stato di forte malessere in cui versava gran parte del Vecchio Continente (tranne l’Unione Sovietica, grazie al successo del poderoso piano d’industrializzazione imposto da Stalin sia pur con altissimi costi sociali). Dopo un periodo di notevole ottimismo che anche l’Europa (al pari degli Usa) aveva vissuto nella prima metà degli anni Venti, la sua economia s’era trovata successivamente ad accusare una battuta d’arresto, tale da innescare una parabola tendente, daun lato, alla stagnazione e, dall’altro, a una crescente inflazione. Al punto da incrinare le condizioni del ceto medio risparmiatore ea reddito fisso e damettere a repentaglio le fortune di vari grandi gruppi industriali. Colrisultato di aprire la strada in Germania all’avvento al potere del nazismo (accostatosi alla dittatura fascista già instauratasi in Italia) e di indebolire in Francia e in Gran Bretagna il sistema democratico, alle prese con una strisciante recessione.
Haperciò ragione Kiran Klaus Patela sostenere, in antitesicon l’interpretazione per così dire “narcisistica” tuttora prevalente nel campo deglistudie nel discorso pubblico aldilàdel l’Atlantico, che furono tangibili, nell’ ambito di unfenomeno globale come la Grande Crisi del ’29, le interconnessioni transnazionali in merito alle misure di carattere strutturale assunte, sotto l’ egida dello Stato, da va rigoverni per reagire a un sisma economicodevastante e scongiurare così lo sconquasso del sistema capitalistico. È ve roche a nutrire un’ opinione non dissimile in sostanza da quella d iP a telson o giunti negli ultimi anni diversi storici ed economisti non solo europei. Mail merito dello studioso olandese è di aver tracciato, in base a una vasta documentazione, un quadro complessivo, a livello appunto globale, sia delle matricidi quella spirale economica perversa quanto drammatica che segnò la fine di un’ epoca, sia delle misure poliedricheed eterodosse che concorsero a porre le premesse, do pola fine della Seconda guerra mondiale, dell’ era del neo-capitalismo.
Una volta assodato che furono comuni sia agli Usa che ad altri Paesi alcune iniziative senza precedenti o per lo più inedite, volte a ridar fiato alla produzione, a creare nuovi post idi lavoro nelle fabbriche e nelle campagne, a incentivare la realizzazione di moderne infrastrutture, o a introdurre adeguate forme di sicurezza sociale, resta tuttavia il fatto che il tratto distintivo peculiare del New De al, rispetto ai regimi politici di estrema destra in grado di attuare con tempestività ed energia soluzioni di carattere eccezionale, consistette in una politica pragmatica quanto lungimirante tendente a saldare, attraverso l’intervento pubblico, la ripresa economica con una serie di profonde e significative riforme sociali, tali da generare perciò un’ alternativa sia al collettivismo e alla pianificazione di stampo comunista, sia al dirigismo autoritario e corporativo di marca nazifascista. Che era appunto il duplice obiettivo proclamato esplicitamente da Roosevelt nel 1936:« Qui in America stiamo portando avanti con successo una grande guerra. Non è solo una guerra contro la povertà, l’indigenza e la depressione economica. Ben di più. È una guerra perla sopravvivenza della democrazia ». Si trattava a tal fine di mobilitare la società americana in uno sforzo collettivo, ma senza alcun genere di irreggimentazione dall’ alto, bensì avvalendosi, da un lato, dell’opera di una squadra di esperti a stretto contatto con la Casa Bianca( il cos id dettob ra in trust) e, dall’altro, coinvolgendo i connazionali in un dialogo permanente. Un compito che Roosevelt, da buon conoscitore degli stati d’animo della gente comune e da abile comunicatore, seppe svolgere egregiamente spiegando agli americani i motivi e le finalità delle sue decisioni (famosi divennero i colloqui in proposito dalla radio che teneva ogni settimana).
Si spiega pertanto come il New Deal abbia costituito una sorta di “impalcatura istituzionale” (per dirla con Patel), irrobustita dalla “rivoluzione” keynesiana sul piano macroeconomico, per la successiva ascesa degli Stati Uniti, con connotazioni progressiste, al vertice del mondo occidentale e per la loro crescente influenza nello scacchiere internazionale.
IL NEW DEAL. UNA STORIA GLOBALE Kiran Klaus Patel Einaudi, Torino, pagg. 531, € 34