Logica semplificatrice a scapito del pluralismo
L’“inarrestabile democratizzazione”, di cui scrive qualche autore americano, è vera o illusoria? Un bilancio della democrazia diretta, come quello che si trae da questo volume, permette di giungere ad alcune conclusioni sicure. La pri
ma è che nessuno Stato nazionale è retto da un regime di democrazia diretta; questa serve soltanto ad integrare la democrazia detta rappresentativa (il referendum come «complemento del procedimento legislativo»). La seconda è che la democrazia diretta è un fenomeno che si riscontra per lo più a livello substatale (negli Usa, non c’è a livello federale). Ciò conferma l’osservazione di Madison (Federalist papers n. 14) secondo cui in una democrazia il popolo esercita il governo in prima persona; di conseguenza, la democrazia deve essere confinata in un “ambito piccolo”. Infatti, Svizzera, Islanda, Finlandia, singoli Stati degli Usa fanno ricorso a procedure di democrazia diretta.
Le critiche mosse alla democrazia diretta sono molte. Risponde a una logica semplificatrice, binaria (sì o no), mentre la politica richiede ponderazioni, compromessi, attenzione al pluralismo. Richiede una conoscenza di questioni collettive che il popolo non ha, e che bisogna assicurare. Diviene spesso acclamazione (argomento, questo, usato da Carl Schmitt) e quindi strumento di autocrazia, tanto da agevolare il bonapartismo, come dimostrato dal ricorso di de Gaulle al referendum per rafforzare l’esecutivo al di sopra delle macchinazioni dei partiti. Quindi, il popolo finisce per esser chiamato a ratificare, più che a decidere. Infine, la democrazia diretta può diventare «uno strumento utile all’arsenale della politica dei gruppi di interesse», come accaduto frequentemente in California, dove è servito a promuovere interessi commerciali ben finanziati e gruppi di interesse ben organizzati, che avevano risorse per raccogliere richieste di misure a loro favorevoli o per fare campagne per farle approvare. Tutto ciò a danno delle minoranze, in California specialmente delle minoranze linguistiche. Insomma, il referendum diventa facilmente una industria politica gestita da professionisti.
Queste, in breve, le conclusioni essenziali che possono trarsi dal lavoro di cinque studiosi che hanno passato in rassegna molto accuratamente l’evoluzione storica della democrazia diretta in Francia, Stati Uniti, Spagna e Germania, e l’attuale disciplina in Europa (Francia, Italia, Germania, Spagna, Paesi minori) e in America (Usa, Canada, America latina, con particolare riguardo alla Colombia), nonché nell’Unione europea (art. 11 del trattato). Il volume è parte di un «Trattato di diritto pubblico comparato» in più tomi (di cui tre sono stati pubblicati finora), fondato da Giuseppe Franco Ferrari. Ogni volume è pubblicato in italiano, inglese e spagnolo. È un vero peccato che gli autori non abbiano incluso nell’esame le proposte di democrazia diretta dei bolscevichi, che tanta attenzione attirarono nel mondo negli anni a ridosso della Rivoluzione d’Ottobre.
GLI ISTITUTI DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA a cura di Eloy Garcia, Elisabetta Palici di Suni, Martin Rogoff Wolters Kluwer – Cedam, pagg. 310, € 35