Battaglie anti-sistema di quattro «visionarie»
Sixties. Sono un’etologa, una biologa, un’antropologa e un’esperta di food
Nel 1960 Jane Goodall, un’inglese di 26 anni priva di titoli accademici o credenziali scientifiche ma innamorata della natura e degli animali, si reca nella riserva del fiume Gombe, nell’odierna Tanzania, dove, grazie all’appoggio del paleontologo Louis Leakey, che ha conosciuto per caso, intende studiare gli scimpanzè. Non avendo alcuna esperienza, improvvisa quello che diventerà il suo metodo. Mentre l’etologia del tempo insiste su un approccio impersonale e asettico a una specie, dominato da numeri e statistiche, lei familiarizza con individui, s’interessa alle loro relazioni reciproche, compie perfino l’atto blasfemo di chiamarli per nome e distinguerli l’uno dall’altro per temperamento e abitudini. Gradualmente, la confidenza che acquisisce con loro e la sua disponibilità a osservarli a lungo in modo non aggressivo o invadente le permettono di compiere scoperte memorabili: di vederli mangiare carne, danzare nella pioggia e servirsi di un rametto per pescare termiti. Così facendo, riscrive la metafisica del mondo vivente, in cui gli esseri umani si erano da sempre arrogati il ruolo di unici utilizzatori di strumenti ed esecutori di riti.
Goodall è una delle quattro visionary women trattate dalla giornalista e scrittrice Andrea Barnet nel suo libro omonimo. Le altre sono Rachel Carson, biologa e zoologa statunitense che condusse una lunga battaglia contro il DDT e con Primavera silenziosa, del 1962, diede un decisivo contributo a metterlo al bando; Jane Jacobs, antropologa e attivista pure degli Usa ma naturalizzata canadese (perché contraria alla guerra in Vietnam) che salvò il Greenwich Village di New York da quanti volevano trasformarlo in un intrico di autostrade e nel suo Vita e morte delle grandi città del 1961 sostenne il recupero dei centri urbani a misura d’uomo; e Alice Waters, che dal suo ristorante Chez Panisse, aperto nel 1971 a Berkeley, lanciò una rivoluzione alimentare favorendo prodotti locali, genuini e organici e contrastando l’agricoltura industriale, i pesticidi e i cibi precotti e preconfezionati (dal 2002 è vicepresidente di Slow Food).
Barnet non intende scrivere biografie di queste quattro protagoniste del nostro tempo; a ciascuna sono già stati dedicati numerosi libri. Vuole far emergere i temi generali che le caratterizzano, ben esemplificati da quel che si è detto di Goodall. Sono, innanzitutto, donne, in un mondo dominato dagli uomini che le snobba e le deride. E sono donne che, anche quando si danno da fare per integrarsi nella cultura ufficiale (Carson si laureò a Johns Hopkins ma dovette abbandonare il dottorato per difficoltà economiche; Goodall conseguì un dottorato a Cambridge senza mai essersi laureata), rifiutano le convenzioni accademiche e scelgono di cambiare il mondo dal basso, coinvolgendo migliaia di persone di buona volontà. (Sconfitto nel suo tentativo di «riqualificare» il Village con la distruzione di interi isolati, Robert Moses, zar dello «sviluppo» di New York, si sfogò sbraitando: «Nessuno è contrario a questo piano. Nessuno tranne un gruppo di mamme.»)
C’è poi il contenuto delle loro battaglie, ciò su cui Carson, Jacobs, Goodall e Waters concentrarono la loro attenzione e richiamarono la nostra. Invece di un mondo ridotto ai minimi termini e quindi ricostruito artificialmente esaltando lo strapotere della tecnologia e realizzando monoculture intensive avvelenate dai diserbanti, tetri formicai incubatori del crimine, porzioni inventate in laboratorio da riscaldare al microonde, ci hanno fatto vedere il mondo come una rete di interazioni, un delicato equilibrio fra diversi che si completano e si compensano, un sistema ecologico nel quale l’uomo fiorisce al meglio se vive da partecipante comprensivo e benevolo, non da tiranno avido e borioso.
Ancora un dettaglio di questo libro merita un cenno. Sebbene appartengano a generazioni diverse, le quattro donne hanno un’intensa presenza nei fatidici anni Sessanta del secolo scorso (Waters, la più giovane, apre il suo ristorante all’inizio del decennio successivo, ma si forma in quel decennio); Barnet lo rileva e vi insiste. Gli anni Cinquanta, in America ma anche altrove in Occidente, avevano visto gli incubi della minaccia atomica, della Guerra fredda, della psicosi anticomunista e dell’inquadramento dei cittadini (maschi, in grande maggioranza) in organizzazioni anonime. Gli anni Sessanta si ribellarono a tutto questo, ed è bene ricordarsene oggi, quando è un luogo comune criticarli e ridimensionarli. Possiamo criticarli e ridimensionarli proprio perché molte loro proteste sono diventate anch’esse luoghi comuni; prima fra esse, l’appello a un nuovo ruolo per le donne. La mistica della femminilità di Betty Friedan fu pubblicata nel 1963, e Barnet riconosce che avrebbe potuto discutere anche quel testo e quell’autrice. Ma, tutto sommato, preferisco che il nuovo ruolo delle donne traspaia con evidenza da come ci hanno insegnato a pensare non solo alle donne ma anche al cibo, agli animali e alle città.
In Inghilterra e in America cambiarono le cose dal basso, ciascuna nel proprio settore
VISIONARY WOMEN: HOW RACHEL CARSON, JANE JACOBS, JANE GOODALL, AND ALICE WATERS CHANGED OUR WORLD Andrea Barnet New York, Ecco, pagg. xiv+514, $ 29,99