Sabato 27
«Nel piccolo non esiste un minimo, né un massimo nel grande; ma, rispetto al piccolo, vi è sempre un più piccolo e, rispetto al grande, un più grande». Un universo infinito in tutte le direzioni, sopra e sotto di noi, immaginava nel V secolo a.C. Anassagora di Clazomene, imitato in tempi recenti da illustri fisici, come Freeman Dyson e Tullio Regge. Quest’ultimo diceva di sognare un universo con infinite dimensioni spaziali e infinite simmetrie, contenente tutto ciò che si può pensare (qualcosa di simile a ciò che Cantor chiamava una «moltitudine assolutamente infinita»). Salvo che in cosmologia, però, i fisici non sono generalmente a proprio agio con l’infinito; talvolta ne hanno addirittura fastidio, come quando se lo ritrovano nei risultati di qualche calcolo e devono ingegnarsi per eliminarlo.
Ben diverso è l’atteggiamento dei matematici, il cui rapporto con l’infinito è di tranquilla convivenza. Ma non è sempre stato così. La familiarità con questo concetto tanto affascinante quanto pericoloso – che «corrompe tutti gli altri», per dirla con Borges – è una conquista relativamente recente, l’esito di un lungo e travagliato percorso intellettuale. Quando, nel 1930, Hermann Weyl afferma che «la matematica è la scienza dell’infinito», alle sue spalle ha le scoperte di Dedekind e Cantor sul continuo e il transfinito, ma l’inizio della storia si situa ben più lontano nel tempo, in quell’antica Grecia i cui pensatori ebbero il merito, nelle parole dello stesso Weyl, di aver fatto della tensione tra finito e infinito «la forza trainante per la conoscenza della realtà».
«L’infinito! Nessun altro problema ha mai turbato così profondamente l’animo dell’uomo; nessun’altra idea ha stimolato in modo più fecondo il suo intelletto; e tuttavia nessun altro concetto ha maggior bisogno di una chiarificazione». Così scriveva nel 1925 David Hilbert, sintetizzando come meglio non si potrebbe la storia dell’infinito e del tentativo umano di catturarlo. Una storia di turbamenti e di fascinazioni, di gigantesche sfide intellettuali, di interminabili controversie, di geniali intuizioni, cui è dedicato ora un delizioso volumetto di Umberto Bottazzini nella collana «Raccontare la matematica» del Mulino (inaugurata qualche anno fa dallo stesso Bottazzini con Numeri).
L’avvincente impianto narrativo del libro si dispiega attorno a un episodio curioso ed emblematico. Nel giugno del 1784 l’Accademia delle Scienze di Berlino, la cui Classe di matematica era allora diretta dall’italiano Giuseppe Luigi Lagrange, uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, bandì un premio rivolto agli studiosi di tutta Europa, da assegnarsi a chi avesse formulato, entro due anni, «una teoria chiara e precisa di ciò che si chiama “infinito” in matematica». Il premio – una medaglia d’oro del valore di 50 ducati – venne alla fine attribuito a uno sconosciuto, un insegnante svizzero di nome Simon Lhuilier: il che sarebbe già sorprendente in un’epoca ricca di matematici di ben altra levatura, se non si aggiungesse il fatto, ancor più paradossale, che Lhuilier rispondeva alla richiesta di una teoria dell’infinito sostenendo, al contrario, che ci si dovesse liberare una volta per tutte di quel concetto. Proponeva persino un nuovo termine, «infinibile», per indicare la facoltà di non poter essere concluso, in contrapposizione a «infinito», che fa invece pensare a qualcosa di dato. Nonostante il premio dell’Accademia, però, il neologismo non ebbe grande fortuna.
Quella di Lhuilier era una versione aggiornata della vecchia distinzione tra infinito in potenza e infinito in atto introdotta da Aristotele. L’infinito in potenza – ovvero la possibilità di accrescere qualcosa senza alcun limite – non solleva
«La corruzione del sé, dei gruppi, delle istituzioni:
il lavoro psicoanalitico promotore di cambiamento» è il convegno che si terrà dalle 9 al Siam di Milano
organizzato dall’Associazione
Psicoterapia Psicoanalitica di
Gruppo). Partecipano: Umberto Ambrosoli, Giancarlo Bosetti, Gherardo Colombo, Giacomo Marramano, Cristina Saottini, Carlo Zucca Alessandrelli. Chair Andrea Jannaccone Pazzi
particolari difficoltà: non facciamo fatica a pensare che, dato un qualunque numero intero, ce ne sia sempre uno più grande, o che, dato un segmento di qualunque lunghezza, lo si possa sempre prolungare ulteriormente. I veri problemi sorgono con l’infinito in atto, l’infinito compiuto, quello – per esempio – di un segmento inteso come collezione infinita di punti. È questo infinito a essere fonte di paradossi e incongruenze, e non sorprende che per secoli sia stato respinto come inconcepibile, o perlomeno guardato con sospetto. Significativa in proposito è la posizione di Galileo, il quale, da un lato, concepisce il continuo come costituito da infiniti indivisibili, dall’altro si preoccupa delle «maraviglie» e delle difficoltà «che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno a gl’infiniti». Una di queste difficoltà è illustrata nei Discorsi del 1638. È il cosiddetto paradosso dei quadrati: i quadrati degli interi sono una parte degli interi stessi, ma poiché possono essere messi in corrispondenza biunivoca con questi, sono tanti quanti gli interi – la parte, dunque, è «uguale» al tutto. Esempi simili dimostrano, secondo Galileo, che è sconveniente dare agli infiniti quegli stessi «attributi di maggioranza, minoranza ed egualità» che diamo di solito alle cose finite, perché degli infiniti «non può dire, uno esser maggiore o minore o eguale all’altro». Ci vorranno due secoli e mezzo perché i matematici superino gli ostacoli così lucidamente evidenziati da Galileo. Sarà, come è noto, Georg Cantor, alla fine dell’Ottocento, a rendere pensabile in maniera non contraddittoria l’infinito attuale; anzi, gli infiniti attuali, perché – questa è la grande scoperta-invenzione di Cantor – esiste una scala di infiniti di potenza crescente, al cui gradino più basso si colloca l’infinito numerabile degli interi, seguito dall’infinito dei numeri reali (il continuo), che ha la potenza immediatamente superiore.
Quando si pensa all’infinito – osserva Bottazzini – non c’è immagine più evocata di quella dell’oceano. Di «immenso oceano degli indivisibili e degli infiniti» parla Bonaventura Cavalieri nella prima metà del Seicento e qualche decennio dopo Bernard de Fontenelle paragona i numeri razionali ai campanili affioranti qua e là nelle terre sommerse dalle acque, che ricoprono l’immensa distesa degli irrazionali. Ma, se naufragar è dolce in questo mare per il poeta, non lo è di certo per il matematico, che, da sempre, ha un altro compito: quello di cercare rotte sicure tra gli scogli dei paradossi per ricondurre in porto, sano e salvo, il battello del pensiero.
vincenzo.barone@uniupo.it