Non è un’energia per vecchi
Reazionaria, anormale, noiosa? Anzi. Quella forte è l’unica in grado di rappresentare il pensiero, la cultura, la memoria storica e le passioni dell’intelletto
Il Festival del Giornalismo Culturale, a Pesaro, organizza un ciclo d’ incontri sul tema :“Il linguaggio dei media sull’arte”. Sabato 27 ottobre, al Teatro Rossini, siamo invitati a dialogare, in quattro, a proposito di una fra le arti. Avete indovinato: è la musica. Personalmente, ci avviciniamo all’appuntamento con una (tenue) speranza e con una (terrificante) incertezza. La speranza è che tutte le persone presenti pronuncino correttamente“media” con la “e”, e non “midia” con la “i”, trattandosi di lessema e morfema latino, non inglese, e perciò desideroso di un adeguato e corrispondente fonema. L’incertezza nasce dalla nostra personale incapacità di trattenerci da accessi di violenza belluina e sanguinaria, quando ripensiamo (o siamo incoraggiati a ripensare, come avverrà il pomeriggio del 27) ad alcuni episodi salienti di ciò che è, in Italia, il linguaggio dei “mEdia” sulla musica, al lessico usato, persino a certi giudizi axiologici. Pensiamo alla spassosa dicotomia da noi letta su uno dei due maggiori quotidiani del Nord e dell’intera Repubblica: si lodava Play radio, un programma per tutti, senza muri e senza razzismi elitarii, in cui veniva trasmessa «… sia musica normale, sia musica classica…» (il corsivo è nostro). E che dire della geniale risposta data anni or sono a un ascoltato redi“Radio Tre” da G. L. a proposito di Igor Markevitch,e del rimbalzo della suddetta risposta nelle altrettanto geniali circonvoluzioni di un altro Maestro di giornalismo, culturale e anche no? E come descrivere il nostro sussulto e fremito (non di terrore, ma di causa del tutto opposta) leggendo su un settimanale ex laicissimo i sorprendenti giudizi critici di un altro I per-Maestro sugli inesistentiQuartetti per archi di Chopin, e su altre immaginarie composizioni di musica “anormale” (ossia, “classica”)?
Da incertezza a incertezza. Incautamente, è stata usata la parola “musica”. Quale il significato? Non anticipiamo qui i nomi e le qualifiche degli altri tre, ma è evidente che, nel dialogo prevarrà, come significato, “musica debole” (è il nome che da anni diamo al rock, al pop, al metal, al folk, al rap, alla canzonette melodiche in stile Sanremo o al parlato vuoi roco vuoi lagnoso alla Bob Dylan), e soltanto noi intenderemo “musica” nel significato di “musica forte”. L’infinita gamma axiologica e semantica compresa in innumeri gradazioni tra la musica forte e la debole, sarà (ne siamo certi) del tutto ignorata. Siamo quasi certi che rispunteranno, da qualche parte, le varianti (tema e variazioni) della suddetta dicotomia. Le varianti potrebbero essere (speriamo di no) le solite, una più cretina dell’altra. La musica forte sarà indicata, magari con artefatto “rispetto”, come musica del passato, e la musica debole si gabellerà come musica del presente e del futuro... e le successive variazioni sul tema saranno probabilmente (risperiamo di no) musica per vecchi versus musica per giovani, musica di conservatori e reazionari versus musica rivoluzionaria e progressista (il carattere reazionario e regressivo, bigotto e fascistoide, parrocchiale e da “circenses” - per il popolo bue – della musica debole è palese), magari persino “musica noiosa versus musica inventiva”). Ma anche se (lo speriamo) si avrà la decenza di evitare simili antitesi da barzelletta, temiamo molto che qualcuno, con “saggezza”, finisca per proporre la solita ultrademocratica visione “orizzontale”: ma sì, senza muri, niente razzismi larvati, c’è musica e musica, che diàmine, a 360 gradi, ci sono tanti “generi”: il rap, il pop, la classica, tutti sullo stesso piano di dignità, tutti axiologicamente alla pari.
Che cosa è debole, e che cosa è forte, nella musica debole e in quella forte? È il significato, che a sua volta dipende dell’energia. Applichiamo la formula einsteiniana (adeguatissima!) e = mc2, intendendo l’energia musicale (e) come direttamente proporzionale alla massa (m) di segni, messaggi, intenzioni, emozioni, che una sola battuta di pentagramma può trasmettere o non trasmettere, e al quadrato della velocità (c) con cui la musica suscita modulazioni, transizioni, sorprese, cadenze evitate, oppure non ne è capace. Non possiamo più parlare di “generi”, bensì di “livelli”, di gradi di significato, di potenza semantica, di idoneità a rappresentare il pensiero, la cultura, la memoria storica, le passioni dell’intelletto. La visione è “verticale”. Sì: i livelli inferiori meritano attenzione, diritti, amore, esattamente come i livelli superiori. Se ci affacciamo al balcone, osserviamo la via sottostante, amiamo le persone che entrano dal panettiere o nell’ufficio postale. Oppure, di notte, osserviamo le stelle con un piccolo telescopio amatoriale. Ma lasciamo distinti i due piani. Passeggiare per la strada, uscire dal bar dopo l’aperitivo e imbattersi in Antares o in Vega o nella costellazione del Cigno può essere imbarazzante. Aprire una tabaccheria o un ufficio dell’Inps a metà distanza tra una pulsar e un Buco Nero è pericoloso, o, quanto meno, scomodo.