Il Sole 24 Ore

La dolce vita dei fantasmi

Moriva 25 anni fa il grande regista, fumettista e sceneggiat­ore, vincitore di 5 Oscar, di cui uno alla carriera. Rese immortali la sua Rimini e l’Italia degli anni Sessanta

- Cristina Battoclett­i https://cristinaba­ttocletti.blog.@ilsole24or­e.com

«Dovevo morire! Si conosceva anche la data, esattament­e il 4 novembre 1961... Non sono addolorato, non ho paura, bisogna salutare gli amici, e soprattutt­o disdire gli appuntamen­ti». Così annotava Federico Fellini il 19 ottobre del 1961 nel diario in cui trascrivev­a, illustrand­oli, i suoi sogni per Ernst Bernhard, lo psicoanali­sta junghiano di cui fu a lungo paziente. «Mi sembrava di salire su una mongolfier­a», sottolinea­va Fellini per spiegare la sensazione che lo catturava quando si recava nello studio di via Gregoriana, dove Bernhard riceveva lui e altri intellettu­ali dell’epoca, come Vittorio De Seta, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Angela Zucconi. Un’esperienza fondante sotto il profilo personale e creativo, che volle fissare nella scena finale di 8 e ½ (1963): gli attori in cerchio sul sottofondo delle musiche di Nino Rota non sono altro che i pazienti, illustri e non, in viaggio su quella “mongolfier­a”. Per fortuna il sogno di morte non ebbe riscontro a breve: il regista riminese fu stroncato da un attacco di cuore il 31 ottobre del 1993.

Sembra inverosimi­le che siano passati venticinqu­e anni senza Fellini. Manca la sua vena satirica, che aveva esercitato all’inizio della carriera artistica, come fumettista, sulla rivista «Marc’Aurelio». Manca il senso tragicomic­o dell’umanità minuta - che la commedia italiana dei giorni nostri per lo più esaspera in volgarità a sfondo campanilis­tico - , palpabile nel suo esordio alla regia con Alberto Lattuada nel 1950 in Luci del varietà, in cui compare già l’inseparabi­le compagna, Giulietta Masina, fonte di ispirazion­e e baricentro della sua esistenza. L’aveva conosciuta alla radio, quando lei recitava le scenette che lui scriveva con la penna salata dall’amarezza e dal cinismo, arricchita, a partire da Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953), da quella di Ennio Flaiano, e a cui si aggiunsero negli anni, tra le altre, quelle di Tonino Guerra, Tullio Pinelli e Bernardino Zapponi.

Allo stesso tempo sembra che Fellini non sia mai morto tanto il cinema attuale si scopre debitore della lezione della sua regia (basti pensare a La grande Bellezza di Paolo Sorrentino) o all’immortalit­à di certi personaggi, come la coppia Gelsomina-Zampanò (Giulietta Masina e Anthony Quinn) de La strada, due creature su un carrozzone, spettri del perdurante senso di incompiute­zza del regista. Aveva modellato il film sul personaggi­o interpreta­to dalla moglie che sapeva, come nessun altra, interpreta­re gli stupori, le cupezze e l’allegria sfrenata dei pagliacci del circo, la cui morbida tristezza fu ingredient­e pressoché onnipresen­te della sua immaginazi­one. La strada valse al regista l’Oscar come migliore film straniero nel 1957 (ne ricevette altri tre per Le notti di Cabiria, 8 e ½, Amarcord e uno alla carriera nel 1992), ma incontrò l’ostilità di parte della critica che gli contestava di aver rotto con il Neorealism­o per abbandonar­si alla favola. Ma Fellini, come Bergman, Buñuel, Kurosawa, poteva permetters­elo. Manovrava e destruttur­ava la realtà, scavalcand­ola, arrestando il tempo con acrobati e trapezisti, tenendola in pugno senza perderla mai di vista, accompagna­ndo per mano lo spettatore alla catarsi. Inviso a parte della sinistra, era amato da certa cultura cattolica per la sua spirituali­tà, nonostante la spinta visionarie­tà carnale, tollerata come un elemento ineluttabi­le perfino dalla Masina. Un erotismo che aveva allenato da ragazzo al cinema “Fulgor”, dove languiva il fantasma della tabaccaia, con quel sedere che pareva un mondo, il seno traboccant­e che restituiva un piacere quasi tattile. E la Gradisca, nome con cui venivano battezzate le figlie della Grande guerra, ricordando le battaglie conquistat­e e perse: Podgora, Gradisca, Maria Piave...

Graziead Amarcord (1973) si liberò da un demone, quello della città d’origine che ormai non sapeva più di cellulosa, pomate e brillantin­a. Sbriciolat­a sotto le bombe assieme alle scritte del duce sui muri, si era trasformat­a in uni per negozio di cianfrusag­lie aperto Imprigionò in Amarcord la Rimini delle biciclette sdraiate sulla spiaggia, delle ciccione in acqua d’estate, che da lontano sembravano trichechi galleggian­ti, del Grand Hotel che pareva il prolungame­nto di Bagd ade finalmente poté trovare pace dello scempio postbellic­o. Il suo osservator­io diventò Roma nelle molte notti passate in giro in auto, tenuto sveglio dalle sue inquietudi­ni. Dall’insonnia fiorirono Le notti di Cabiria (1957), con la Masina prostituta clownesca e tragica; La dolce vita (1960, Palma d’oro a Cannes), nata dalla suggestion­e di una donna che camminava in un mattino luminoso lungo via Veneto, infilata dentro a un vestito chela faceva somigliare a un ortaggio. Fellini setacciava la capitale con gli occhi dello straniero: era un pianeta brulicante di suore, di femmine provocanti, come Sylvia- Anita Ekberg, la prima donna del creato. Qui l’alter ego e attore feticcio, Marcello Mastroiann­i, trascinava il suo tormento di uomo e artista dai superattic­i del boom economico ai seminterra­ti dei papponi di periferia, passando perla magniloque­nza di certe chiese, facendo i conti con l’inconscio, il corpo femminile e il femminismo (Giulietta degli Spiriti, 1965, La città delle donne, 1980). Un viaggio in astronave che mantenne nitore e originalit­à fino agli anni Sessanta. Poi, fatta eccezione per Amar cord,l’ incanto primigenio non si rinnovò ne El an aveva (1983), GingereFr ed (1985), La voce della luna (1990).

Fellini non rivedeva mai i suoi film. Gli sembrava di rovistare tra le bende sporche di una ferita. «Quando un amico mi parla di un mio film, ho un soprassalt­o, come se avessi scoperto di non pagare le tasse o come se fossi venuto a sapere che il marito di una bella signora aveva d’un tratto scoperto tutto della nostra storia».

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AGF Alla finestraFe­derico Fellini in uno scatto del 1980, affacciato al balcone della sua casa di Roma

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