Bandiera bianca sull’Adige
Cento anni fa a Villa Giusti, nelle vicinanze di Padova, la firma dell’armistizio che pose fine alla guerra contro l’Austria-Ungheria
Quest’anno, chi dalla pianura lombardoveneta sale verso le Dolomiti, attraversa simbolicamente la Storia. Il 29 ottobre 1918, cent’anni fa, nella strettoia di Serravalle all’Adige, poco prima di Rovereto, un ufficiale dello Stato Maggiore austriaco, Camillo Ruggera – nato in Val di Fiemme e di madrelingua italiana – delegato dal generale Viktor Weber von Webenau, fa esporre la bandiera bianca e suonare la tromba d’ordinanza, presentandosi agli italiani con la richiesta di un armistizio.
A Serravalle, lungo la strada statale n. 12, un cippo posato nel 1958 ricorda l’evento: appena dietro si vedono i binari della ferrovia, mentre a poca distanza passa l’Autobrennero e scorre il fiume Adige. Da parte austriaca già nei primi giorni dell’ottobre 1918 si era cominciato a pensare a una domanda di armistizio e di pace, istituendo a Trento una commissione presieduta dal generale Weber. Ma l’intenzione non era quella di cedere agli italiani, «colpevoli» della rottura della Triplice Alleanza nel 1914-15, bensì di rivolgersi al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Poi il precipitare degli eventi, con l’esercito imperiale ormai in rotta al di là del Piave, mandò a monte il progetto.
Quando il capitano Ruggera, nella fredda mattina del 29 ottobre, lascia con due trobettieri le linee austriache e procede lungo il terrapieno della ferrovia (allora a binario unico) verso il fortino di Serravalle, dalle postazioni italiane per un equivoco partono alcuni colpi di mitragliatrice che feriscono a una gamba uno dei trombettieri e spezzano l’asta della bandiera bianca, facendo cadere in un fossato il drappo. Poco dopo il suono delle trombe dalle linee italiane segnala che la richiesta di un colloquio è stata compresa. Ruggera fa approntare un’altra bandiera bianca e con il trombettiere incolume presenta le sue credenziali di parlamentare e chiede il soccorso del trombettiere ferito. Coincidenza della storia: il generale di divisione Battiston, primo ufficiale superiore italiano che incontra Ruggera, è pure lui trentino. Ma rappresentano due eserciti nemici. I «preliminari» di Serravalle, anche con note di colore, sono raccontati nel bel libro di Giuliano Lenci Le giornate di Villa Giusti-Storia di un armistizio, pubblicato nel 1998 (e ristampato nel 2008) dall’editore Il Poligrafo di Padova.
L’asta con un lembo della bandiera bianca e la tromba sono esposte al Museo storico italiano della guerra, nel castello di Rovereto, in una bacheca appositamente allestita per il centenario. Dall’alto degli spalti del castello, di impronta veneziana e con una robusta cinta muraria, si spazia con la vista su Rovereto e la Valle Lagarina: dopo lo scoppio della guerra 1915-18 la città, in mano austriaca, era sotto il tiro dell’artiglieria italiana e fu più volte bombardata.
Negli ultimi giorni di ottobre, a un centinaio di chilometri di distanza, sulla linea del fronte che dal Monte Grappa scendeva lungo il Piave, prendeva corpo l’offensiva italiana (anche se il nostro Comando non prevedeva che sarebbe stata la svolta decisiva della guerra). La data dell’attacco era stata fissata un anno esatto dopo la rotta di Caporetto. Ma il 24 ottobre ad agire è soltanto la IV Armata del generale Gaetano Giardino sul Grappa: l’azione sul Piave è rinviata, causa la piena del fiume che scardinava i ponti gettati sull’altra riva. Soltanto nella notte fra il 28 e il 29 ottobre, l’VIII Armata del generale Enrico Caviglia varca in forze il Piave, con l’appoggio di alcuni contingenti alleati e avanza in direzione Nord-Est, per spezzare in due tronconi l’esercito austro-ungarico.
La mattina del 30 ottobre due squadroni di lancieri di Firenze a cavallo, provenienti da Conegliano, entrano a Vittorio Veneto – da cui prenderà nome la vittoria italiana – e avanzano lungo il viale degli ippocastani. A seguire arriva un battaglione di bersaglieri ciclisti. Dopo un anno di occupazione nemica seguita alla disfatta di Caporetto, di privazioni e di bombardamenti (italiani), la gente accoglie i nostri soldati con entusiasmo e commozione. Qui, per essere precisi, va detto che “Veneto” si aggiunse solo nel 1923, mentre il nome “Vittorio” risaliva al 1866, in omaggio a Vittorio Emanuele II, quando il Veneto entrò a far parte del regno d’Italia e si fusero i due abitati di Cèneda e Serravalle. Sulla piazza principale di Cèneda – dove sbucarono i lancieri - si affacciano la cattedrale e l’antico Palazzo della Comunità, che ospita il Museo della Battaglia.
Sul piano diplomatico, intanto, il 31 ottobre il generale Weber, plenipotenziario austro-ungarico, riceve la risposta del Comando supremo italiano di Abano Terme, che indica Villa Giusti come sede degli incontri di comunicazione delle condizioni di armistizio. Prospiciente la strada tra Padova e Abano, la villa è immersa in un ampio parco e tra il novembre 1917 e il gennaio 1918, dopo l’assestamento del fronte sul Piave, aveva ospitato anche re Vittorio Emanuele III.
I colloqui si svolgono in un clima di tensione crescente. Nella riunione decisiva, iniziata alle ore 15 del 3 novembre, si arrivò molto vicini al punto di rottura, perché il generale Pietro Badoglio, sottocapo di Stato Maggiore e plenipotenziario italiano, proponeva di posticipare l’armistizio alle ore 15 del 4 novembre (e così poi sarà), giustificando la dilazione con la difficoltà delle comunicazioni con il fronte. Da parte austriaca la richiesta appariva invece come un espediente per ottenere una vittoria più grande, con una maggiore quantità di prigionieri (saranno 350mila). In effetti già nel pomeriggio del giorno 3 era entrata a Trento la cavalleria italiana e nel porto di Trieste aveva attraccato il cacciatorpediniere Audace, che darà il nome al molo dello sbarco. Ma l’obiettivo di Badoglio era di far cessare le ostilità con le nostre truppe attestate nei territori assicuratici dal Patto di Londra del 1915.
Finalmente, alle ore 18.39 del 3 novembre – questo l’orario per la cronaca e la storia – si mettono le firme sul Trattato (il capitano Ruggera, uno dei sette rappresentanti austro-ungarici, scrive il nome Camillo con la «K» e il dettaglio non passa inosservato). I delegati delle due parti concludono la riunione con una stretta di mano. La guerra italo-austriaca era finita. All’Italia era costata 650mila morti e quasi un milione di feriti, la metà dei quali rimasero invalidi e mutilati; l’Impero austro-ungarico, su tutti i fronti del conflitto, ebbe più un milione di caduti.
In occasione del centenario gli eredi proprietari di Villa Giusti - famiglia Lanfranchi – hanno organizzato una serie di iniziative pubbliche, focalizzate sul 3 e 4 novembre. Nella sala centrale al primo piano, dove fu firmato l’armistizio, è stato conservato il tavolo di legno laccato in nero, con quasi tutti gli arredi dell’epoca. Su una parete c’è anche una riproduzione in bronzo del Bollettino della Vittoria, firmato dal capo di Stato Maggiore italiano Armando Diaz.