La rabbia e l’orgoglio: filologi pronti al riscatto
Stefano Rapisarda riflette sulle possibilità di rivalsa della scienza che studia i testi: al tempo di internet può aiutare a tenere vivo il senso critico e tornare così al centro del dibattito culturale
Chissà se i medici dubitano della medicina, gli ingegneri dell’ingegneria, i parrucchieri della parruccheria con lo stesso zelo con cui gli umanisti di oggi dubitano dell’umanesimo? Probabilmente no: ci saranno sempre tumori da curare, ponti da costruire, capelli da tagliare, sarà
sempre abbastanza facile, per loro, ri
spondere alla domanda «Sì, ma a che cosa servite?». Le discipline umanistiche sono sempre state un po’ meno necessarie, ma c’è la diffusa impressione che il loro credito sia andato diminuendo in fretta negli ultimi decenni, per l’indebolirsi delle culture nazionali, l’impoverimento degli Stati che pagano i professori di “umanità”, il prevalere del sapere tecnico-scientifico, internet e le solite altre cose. In questo quadro non roseo, in La filolo
gia al servizio delle nazioni Stefano Rapisarda riflette sulla sorte – anch’essa parrebbe non rosea – di una delle discipline in cui si articola lo studio della letteratura: la filologia, appunto, e la filologia romanza in particolare.
Il libro ha tre parti. Nella prima, Rapisarda constata la crisi degli studi filologici: crisi che non dipende dalla diminuita qualità dei prodotti bensì
da una sorta di fine del mandato so
ciale che i filologi un tempo detenevano, non solo nel campo della cultura ma anche in quello, più ristretto, dello studio universitario della letteratura: delle ricerche e dei pareri dei filologi non ci si cura più granché. Nella seconda parte Rapisarda racconta la storia della filologia romanza negli ultimi due secoli isolando una serie di “paradigmi”, cioè di modelli che hanno informato lo studio delle letterature neolatine del Medioevo. Nella terza parte si domanda «Che fare?», e risponde – più o meno – che la disciplina va reimpostata in chiave davvero comparatistica come
Weltphilologie, allargando lo sguardo alle linee di confine, in particolare studiando meglio di come si sia fatto sinora i rapporti tra Europa continentale e Mediterraneo e i rapporti tra Europa e Oriente. A unificare le tre parti, infine, un’idea fissa, un motivo ricorrente che è poi anche la tesi fondamentale del libro, e che potremmo definire come un sobrio appello alla militanza: «La filologia non è utile o interessante in assoluto, lo è quando si applica ai temi ideologicamente caldi intorno ai quali è nata […]. L’auspicio è che le filologie si ridefiniscano intorno ai “temi caldi” di un’epoca, alle passioni politico-ideologiche, ai Grandi Libri sui quali ogni civiltà è costruita, e che esse riannodino i legami con la comunità di cui sono espressione». Vasto programma.
Sono d’accordo su molte delle opinioni che Rapisarda sviluppa nel suo libro. Sono meno d’accordo sulla sua tesi principale, e cioè che gli studi filologici, per prosperare, abbiano bisogno di ritagliarsi un ruolo nella battaglia delle idee, di diventare armi da adoperare nel conflitto politico. C’è del vero, in questa opinione, c'è storicamente del vero, e Rapisarda lo documenta bene; ma lo stesso si potrebbe dire della storia, della geografia, della linguistica, e insomma di ogni disciplina che – semplifico – faccia centro non sull’oggettività delle cose (da quante carte è formato il tal manoscritto?) ma sulla loro interpretazione (in quale lingua è scritto quel dato documento? Quale popolo si è insediato per primo su quel dato territorio?): cioè appunto quasi tutte le discipline umanistiche. Personalmente, il mio interesse per la filologia nasce soprattutto dalla sua avalutatività, cioè dal suo tenersi a dati oggettivi – che ci sono: non è tutto interpretazione – sui quali possono convergere studiosi e lettori di indole disparata: il luogo dell’intesa, non quello del conflitto.
Qui però sta il problema, che è anche il problema che ha indotto Rapisarda a scrivere questo libro. Ha ancora senso, oggi, reclutare giovani studiosi e metterli a lavorare per decenni alla mappa di un mondo culturale che, oltre ad essere in buona misura già stato mappato, appare così lontano dagli interessi odierni, dalla vita odierna? È giusto far durare, finanziandola, la disciplina che produce contributi come «Appunti sulle maiuscole del cod. Hamilton 90» o «Appunti per una tipologia degli incontri vocalici interverbali nella versificazione occitana» (gli esempi sono di Rapisarda, che è questa rara avis: un filologo spiritoso)?
Mi pare che le ragioni dell’odierna “crisi delle humanities” vadano cercate meno nella loro contingente irrilevanza per la battaglia delle idee (così Rapisarda) che nella loro radicale estraneità all’aria del tempo presente. L’epoca eroica delle filologie è il secolo che va dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento. Prima prevale l’empiria. Dopo, nel tempo presente appunto, cominciano ad affiorare i dubbi, le esitazioni di fronte alla domanda «Sì, ma a che serve?». Anche per questo, in questa età argentea, la filologia e la critica sono state anche troppo propense a salire sul carro del vincitore di turno: il marxismo, Bachtin, lo strutturalismo, gli studi postcoloniali – tutto il nuovo cemento col quale i filologi hanno sperato di puntellare le proprie rovine. Il libro di Rapisarda è, tra le altre cose, un utile promemoria sulle tante scemenze che gli studiosi di letteratura, e purtroppo anche i filologi, hanno preso sul serio nel tentativo di mostrarsi à la page.
Perché questo nervosismo, allora? Non è tutto semplice? I filologi devono fare bene il loro mestiere: studiare la storia e la tradizione dei testi, allestirne l’edizione, commentarli con erudizione e intelligenza. Solo che è una semplicità difficile a farsi. Nelle università italiane ci sono ancora molte persone che fanno precisamente questo, tenendo vivo un habitus che sembra essersi già perso in quasi tutte le altre nazioni occidentali. Ma – Rapisarda ha ragione – questo sembra non bastare più: da un lato per la spinta anti-filologica che sempre più forte si avverte all’interno dell’università (parliamo di idee, di diritti, di conflitti, non di varianti manoscritte!); dall’altro per il disinteresse che il vasto mondo che sta al di fuori dell’università sembra nutrire per un sapere umanistico che non sia direttamente spendibile nel dibattito (meglio le scienze sociali di quelle storiche filologiche) o sul mercato culturale (meglio la storia dell’arte, col suo indotto di mostre, della paleografia, che di mostre quasi non ne produce). Perché allora darsi da fare per acquisire un habitus che richiede molto tempo e infinita dedizione, se poi la voce di coloro che hanno acquisito questo habitus, i filologi, è così flebile? Questo poteva non essere un problema un tempo, quando la cultura era un prodotto o un’emanazione della scuola e dell’università; ma è un problema oggi, quando quella cultura non solo è travolta dall’infinita produzione d’idee e di opere d’arte che ignorano il filtro scolastico ma sembra addirittura inadatta a “preparare alla vita”, per come la vita è diventata (per non lasciare il discorso nel vago: in tanta concentrazione sui libri del passato, sempre più incombe il rischio di non saper capire quel che succede nel presente, o di voler applicare al presente, sventatamente, i principi di Tucidide o di Dante Alighieri: che è un altro nome della stupidità).
Tutto sommato, perciò, sono un po’ più pessimista di Rapisarda. La politica cambia in fretta, le ideologie anche, e alla stasi di un decennio può seguire un’epoca di conflitti, un’epoca che potrà essere, per ipotesi, più congeniale a quella seria, metodica critica del passato che è la filologia. Ma l’aria del tempo sfugge alla volontà degli uomini, si orienta verso ciò che è utile più che verso ciò che è giusto; e dura a lungo. Che fare, dunque, da cultori di discipline umanistiche? Andare contro l’aria del tempo, è ovvio.
LA FILOLOGIA AL SERVIZIO DELLE NAZIONI
Stefano Rapisarda Milano, Bruno Mondadori, pagg. 212, € 15