Il Sole 24 Ore

Philip Roth e il disgusto dell’irrealtà

Dal corpus di scritti critici emerge come ogni analisi letteraria sia subordinat­a all’obiettivo dello «spiegarsi». Anche la narrativa nasce dal ribrezzo della falsificaz­ione

- Nicola Gardini,

Le scritture critiche dei narratori sono sempre benvenute. Ci informano sui libri che hanno amato, sulle loro abitudini profession­ali, sulla loro vita, e talvolta ci permettono perfino una comprensio­ne più sicura delle loro invenzioni. Ma c’è anche un altro elemento, una garanzia. Il narratore che scrive critica (su di sé e sugli altri) possiamo ragionevol­mente considerar­lo un bravo narratore. Il bravo narratore può anche non scrivere critica. Se la scrive, però, ci fornisce un indice con cui dirlo bravo narratore, ossia uno che considera le sue storie responsabi­li davanti alla comunità. Henry James, Marcel Proust, Virginia Woolf docent. Ma docet anche Philip Roth, scomparso il 22 maggio scorso, un secolo dopo i fasti del modernismo. Il volume che raccoglie il suo corpus di scritti critici, Why Write? Collected Nonfiction 1960-2013, uscito nel 2017 come trecentesi­mo della Library of America, è ora pubblicato in italiano da Einaudi, per le cure di Norman Gobetti.

Roth non è un teorico. Non ha neppure una forma prediletta. Lui si esprime con uguale facilità nel saggio autobiogra­fico come in quello letterario, nell’autoeseges­i come nell’intervista. I sistemi, le poetiche, i proclami non lo attirano. Nega che un romanziere abbia alcun potere politico o alcuna capacità di cambiare il mondo. Uno, secondo lui, scrive per far(si) leggere; e scrive per cambiare i modi tradiziona­li o convenzion­ali di scrivere, quelli su cui lui

stesso si è formato. Cambiando la

scrittura, farà cambiare anche i modi della lettura. Ciò, per un autore di romanzi, è già un gran bel risultato.

Che parli di sé o di colleghi e amici, il Roth critico dimostra di non perseguire altro che la spiegazion­e

della propria volontà. Qualunque analisi letteraria è di principio subordinat­a all’obiettivo principale dello “spiegarsi”. Un caso emblematic­o: la lettera con cui chiede ai redattori di Wikipedia di correggere certi gravi errori in voci che lo riguardano. Pronunciam­enti su questioni di stile, di estetica e di etica profession­ale, o ricordi e aneddoti personali, o pareri sulla politica non mancano: la difesa di uno stile colloquial­e ma ben piantato nella pagina, l’attrazione per il comico, la convinzion­e che il narrare porti in sé le ragioni del proprio essere di là da qualunque apparente spunto autobiogra­fico, la volontà di riformare certi procedimen­ti consolidat­i; la celebrazio­ne dei genitori, specie del padre, il terribile matrimonio, la solitudine della quotidiana applicazio­ne alla macchina per scrivere, le ragioni che nel 2010 lo hanno indotto a smettere; il disprezzo per Bush Junior, l’ammirazion­e per Havel… Simili “dettagli” lo storico del genere romanzesco, però, dovrà trasceglie­rli qua e là, un po’ come su una spiaggia i frammenti di vetro tra i sassolini rivoltati dall’andirivien­i dell’onda. Di fatto, qualunque lettore sarà costretto a determinar­e percorsi particolar­i, data l’eterogenei­tà – non priva di una certa ripetitivi­tà – dei contenuti e delle maniere che costituisc­ono il volume.

Roth spiega non per rivelare segreti, non per narcisismo, non per capire meglio quel che ha compiuto,

bensì per correggere le cattive inter

pretazioni di alcuni. La sua critica sgorga dalla medesima fonte da cui sgorga la sua narrativa: il disgusto della falsificaz­ione; o, per dirla con una sua parola, dell’irrealtà. Se non possiamo cambiare il mondo con la nostra scrittura, certo possiamo tentare di rettificar­e le opinioni sbagliate di cui la nostra scrittura è resa bersaglio.

Due accuse hanno accompagna­to la sua carriera fin dagli inizi, ovvero dall’uscita del Lamento di Portnoy

(1969), il quarto libro, ma quello che, grazie all’ossessiva presenza del sesso, gli ha procurato visibilità e ricchezza: l’anti-semitismo e la misoginia. A queste accuse Roth controbatt­e ogni qual volta gli si offra l’occasione. Ebreo, anzi «ebreo di Newark», come non disdegna di essere definito, non ha mai pensato che degli ebrei si dovessero dare solo rappresent­azioni pietose e apologetic­he. Neppure le persecuzio­ni naziste autorizzer­ebbero un’idea di ebreo puramente vittimisti­ca. Quanto alle donne, non ha mai trovato nella misoginia alcun motore per la scrittura. I suoi stessi maschi sono maschi falliti, manchevoli, confusi, nevrotici. Tutta la realtà che racconta è così, un disastro. Perché così è l’America dei suoi giorni, con i suoi ebrei e le sue donne.

L’America: ecco il punto. Roth insiste sull’americanit­à del suo orizzonte. L’America è l’obiettivo, il punto di partenza, il materiale da costruzion­e. L’America e i suoi miti. L’America e le sue menzogne. L’America e i suoi eroismi impossibil­i. L’America e tutto il suo perbenismo. A chi gli domanda perché non ambienti qualche storia anche in Inghilterr­a, dove gli capita di trascorrer­e parecchi mesi all’anno, risponde: «Se non si conosce l’immaginari­o collettivo di un paese è difficile scrivere qualcosa che non sia una semplice descrizion­e dell’arredo, umano e no. […] la cosa peggiore è che qui non ho niente da odiare». Con tutto questo, le pagine di Perché scrivere? compongono un affresco di letture e di confronti che vanno al di là dell’oceano, fino all’Inghilterr­a, appunto, all’Irlanda, alla Francia e all’Europa orientale. Kafka, per esempio, compare con sorprenden­te frequenza, oltre che essere soggetto di un bellissimo disegno biografico. E così vengono richiamati Gustave Flaubert e Virginia Woolf. Parlando dello sforzo di vivere nei panni di personaggi molto diversi, Roth rievoca perfino il concetto di metamorfos­i ovidiana.

Un merito particolar­e hanno le interviste a stranieri, davvero preziose: l’italiano Primo Levi, il rumeno (poi israeliano) Aharon Appelfeld, i cechi Milan Kundera e Ivan Klíma, il polacco Isaac Bashevis, e altri. Il colosso Roth lì si ridimensio­na nei panni del più diligente lettore, pone domande piene di rispetto e di curiosità, che sono saggi in miniatura sull’ebraismo, sull’esilio, sulla storia dell’occidente. Ancor più carichi di affetto appaiono i ritratti di due ammirati connaziona­li, Bernard Malamud e Saul Bellow, tra le cose migliori del volume. Brilla la scena del Malamud malato, che gli dà da leggere qualche stento appunto dell’ultimo periodo e non ottiene da lui l’approvazio­ne sperata.

A parte la rivendicaz­ione di verità personali, esce da tanti e tanto disparati materiali una filosofia rothiana? Ho già dichiarato che Roth non bada a giustifica­re il suo mestiere altrimenti che con il mestiere stesso. Eppure una filosofia c’è: una filosofia non tanto della scrittura quanto della lettura. Una filosofia morale. Noi

dobbiamo leggere e dobbiamo leggere bene, perché, quando lo facciamo, tendiamo a farlo male. Lo scrittore Roth è il primo a dare il buon esempio, citando i suoi idoli, interpreta­ndoli con scrupolo, perfino andandoli a interpella­re di persona, quando ha l’occasione. Al tempo stesso ci fornisce, sparsa per queste oltre quattrocen­to pagine, un’ideale biblioteca di ottimi romanzi, americani e no, e l’esempio di una solitudine che sa trionfare sull’isolamento.

PERCHÉ SCRIVERE? SAGGI, CONVERSAZI­ONI E ALTRI SCRITTI 1960-2013

Philip Roth traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, Torino, pagg. 450, € 22, in uscita il 23 ottobre

 ??  ?? LettoreLo scrittore americano Philip Roth, qui in una foto del 2005, è nato a Newark il 19 marzo del 1933 ed è morto a New York il 22 maggio 2018. Pur essendo stato uno degli scrittori più osannati dalla critica mondiale, non ha mai vinto il premio Nobel
LettoreLo scrittore americano Philip Roth, qui in una foto del 2005, è nato a Newark il 19 marzo del 1933 ed è morto a New York il 22 maggio 2018. Pur essendo stato uno degli scrittori più osannati dalla critica mondiale, non ha mai vinto il premio Nobel

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy