Il Sole 24 Ore

L’altro vangelo degli armeni

Viaggio sulle tracce di Paruir Sevak, il poeta che ha contribuit­o a forgiare con i suoi versi l’identità di uno Stato: in lui si riconosce un intero popolo

- Laura Leonelli

Lo aveva giurato, non avrebbe mai smesso di suonare, campanile o sveglia, fino a quando il popolo non si fosse messo in marcia, questa volta verso la salvezza. Con i suoi versi avrebbe tenuto alto il morale, noi siamo pochi, ma siamo armeni, avrebbe spinto al coraggio, i semi finché non impazzisco­no non diventano

frutti, e, profetizza­ndo la sua morte, ancora oggi misteriosa, troppo strano quell’incidente stradale, aveva invitato all’ascolto del bosco, ci sono tante voci

e tutte diverse. Quel bosco di albicocchi a Sovetashen, piccolo villaggio nella regione di Ararat, dove Paruir Sevak aveva costruito la sua casa e dove è stato sepolto nel 1971 insieme alla moglie. La sua tomba è un luogo di pellegrina­ggio, immersa nel verde, fiori ovunque, selvatici, rose, e delle rose le bacche carminio che delimitano il viale d’ingresso e che alcuni colgono per ricordare quest’uomo straordina­rio.

Se la primavera di velluto armena è diventata l’estate calda che ha salutato l’elezione di Nikol Pashinyan a primo ministro e poche settimane dopo la vittoria del suo candidato, Hayk Marutyan, nuovo sindaco di Yerevan, in carica dal 13 ottobre, lo si deve a lui, a Paruir Sevak, il poeta dell’armenità più

profonda e visionaria nella forza poli

tica dei suoi versi. E se oggi possiamo leggere un’ampia selezione del poema

Il campanile che non tace mai, capolavoro di Sevak tradotto per la prima in italiano dall’armeno, lo dobbiamo a Karen Mirzoian, tenore del teatro della capitale e del coro della sua basilica, docente di canto lirico al conservato­rio, militante di Yelk, partito fondato dallo stesso Pashinyan, nonché guida speciale di Metamondo, tour operator d’eccellenza per l’Armenia. Ed è proprio la lirica italiana ad aver suggerito a Mirzoian la necessità di questa traduzione, «perché Sevak è come Verdi, e come Verdi ha scritto la colonna sonora del Risorgimen­to, così Sevak ci ha preparato ai nostri moti rivoluzion­ari, quando nel 1988 abbiamo potuto finalmente manifestar­e per il ritorno del Nagorno Karabakh, nostra terra da millenni, nel cuore dell’Armenia». Un cuore crivellato come pomice, recita Karen, appoggiand­o una mano sulla tomba di Sevak. Poi altri versi: È possibile che nel mondo ci sia un popolo/che non conosca questa parola? Separare/Se c’è, io cambio nazionalit­à».

Di separazion­i invece se ne contano infinite e tragiche in ogni famiglia, anche in quella di Mirzoian, che verso il 1825 aveva lasciato l’impero ottomano e, minacciata da una delle tante persecuzio­ni,

si era rifugiata nella terra dei padri, l’Hayastan, allora sotto il dominio russo. La famiglia di Sevak invece era arrivata ai piedi dell’Ararat, fuggendo il genocidio del 1915. Quando ancora si chiamava Paruir Rafelovic Kazarian, il grande poeta armeno aveva scelto di laurearsi in filologia, perché solo la lingua armena nell’alfabeto originale creato da Mesrop Mashtots nel IV secolo, poteva garantire l’identità e una ricchezza inalienabi­le, un’arma invincibil­e contro ogni guerra, perché – scriveva Sevak – non abbiamo mortificat­o nessun altro popolo./Nessuno ha subito il colpo del nostro braccio./ Se l’abbiamo attratto, l’abbiamo attratto/solo con i nostri libri.

Ancora studente, diciottenn­e nel 1942, Paruir mostra le prime poesie al suo professore, il quale, colpito dalla novità del linguaggio, gli suggerisce uno pseudonimo, il cognome di Ruben Sevak, anche lui poeta, lapidato durante il Medz Yeghern, il Grande Male. E con questa identità il giovane arriva a Mosca e studia letteratur­a all’Istituto Maksim Gor’kij. Una stanza piccolissi­ma, i piedi nell’acqua fredda per rimanere sveglio a leggere anche venti ore di fila, traduzioni dal russo in armeno e dall’armeno in russo, e «poi una sera del dicembre 1958, Sevak fa una passeggiat­a, entra in una taverna, sente le note di Komitas, e all’improvviso immagina un poema dedicato al musicista, vittima del genocidio, e nel giro di un anno pubblica il suo capolavoro, Il campanile che non tace mai», racconta Mirzoian. Le prime quarantami­la copie del libro si esauriscon­o in pochi giorni, «ogni famiglia armena ne possedeva una, era come un altro vangelo, un passaporto ben più autentico di quello imposto dal governo sovietico. Sono cresciuto ascoltando mio padre che leggeva ogni sera questi versi». Quando Sevak muore il 17 giugno 1971, Karen, che allora aveva undici anni, scappa di casa e corre al teatro per salutare la salma di colui che ormai, per istinto, è il suo mentore. Negli stessi anni vengono battezzati i primi Sevak, che io rinasca a nuova vita nel volto dei neonati, che portino il mio nome. Ma prima di chiamare anche suo figlio Sevak, nato sedici anni fa, Karen scopre che l’indirizzo del poeta a Yerevan, Lalajans 11, è lo stesso di casa sua quando era bambino. «Viveva in una cantina, e mio padre aveva comprato l’appartamen­to al primo piano».

Ma Sevak è di casa nell’animo di Karen, anche quando nel 1988 questo giovane e brillante tenore recita a teatro la poesia Se non prometto e quando cinque anni dopo, durante il conflitto tra Nagorno Karabakh e Azerbaijan, interpreta il ruolo di Poliuto, il magistrato romano, protagonis­ta dell’opera di Gaetano Donizetti, che si converte al cristianes­imo e muore martire per non avere rinunciato alla fede. «Era stato il catholicos Vagzen I a venire in Italia a prendere lo spartito e a volerne la rappresent­azione proprio in quel periodo drammatico in cui anche noi armeni morivamo per difendere la nostra religione». Infine sono arrivate le proteste di quest’anno, «perché i nemici non sono solo ai confini dell’Armenia, ma anche dentro il nostro Paese».

Il 13 aprile Nikol Pashinyan ha guidato la marcia di protesta da Gyumri a Yerevan, il 19 aprile ha incitato i sostenitor­i a bloccare le strade della capitale, è stato arrestato, liberato, e l’8 maggio è stato eletto primo ministro. Karen, come migliaia di connaziona­li, era con lui, «e mentre marciavo e protestavo in piazza, pensavo alla poesia che Sevak ha dedicato alla sabbia, che resta muta nonostante abbia assistito al diluvio preistoric­o, ma quando il vento gioca con l’acqua ecco che la sabbia ricorda, ecco che la sabbia diventa ghepardo e graffia gli occhi della gente». Della gente che dimentica il suo passato. E della gente che nega il passato degli altri.

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Meta di pellegrina­ggi Karen Mirzoian, tenore e traduttore per l’Italia di Paruir Sevak, accanto alla tomba del poeta morto nel 1971, a Sovetashen, in Armenia

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