Una «Wto dei dati» a garanzia del mercato
La grande paura della crisi ha spinto quello che veniva definito come il “sistema bancario” a ripensarsi, in modo più ampio e inclusivo, come “ecosistema finanziario”. Oggi torna a scoprirsi “sistema”, e non solo insieme di attori indipendenti e in competizione, per via dell’accresciuta interdipendenza operativa e dell’azione regolatoria. La novità è che questo nuovo modo di fare sistema non ha i vecchi connotati di un’ormai improponibile logica oligopolistica, ma il volto nuovo di un’integrazione con i processi economici delle famiglie e delle aziende e con i contributi tecnologici e operativi che derivano dall’innovazione della galassia Fintech.
L’apertura dei processi e l’interoperabilità dei dati, imposta da direttive europee che mirano a favorire la competizione e l’innovazione, ha portato anche a una significativa contaminazione dei modelli di business. Con l’affermarsi di Fintech e grazie agli effetti della regolamentazione, la competizione non è più solo intersettoriale, ovvero tra banche e intermediari regolamentati, ma anche intersettoriale, consentendo l’uso di sussidi incrociati con altri mercati. Si pensi ai pagamenti digitali e agli effetti combinati della Psd2, da una parte, e dell’ingresso di attori come Google e Apple. Potendo disporre di fonti di ricavo sicure e protette da enormi effetti di scala a livello globale, il Big tech può permettersi di sussidiare – offrendoli gratuitamente – servizi che le banche hanno fatto storicamente pagare tramite laute commissioni, anche a fronte dei maggiori costi industriali e della compliance regolatoria.
Questo pone un problema industriale non secondario: come affermare i giusti principi di apertura e open innovation, mitigando nel contempo i rischi di legittimare forme di concorrenza non del tutto leale, che fanno leva sul sussidio incrociato e sulle posizioni dominante detenute in mercati diventati nel frattempo adiacenti (si pensi al mercato dei device digitali e dei sistemi operativi). Se da un lato prevale la logica “open” sia sui dati sia sull’innovazione, il modello di competizione non ha ancora raggiunto un nuovo punto di equilibrio, e il mercato dei dati è tuttora fortemente asimmetrico.
Per questo è forse necessario cominciare a ragionare su quello che potremmo chiamare la “Wto dei dati fintech”. Il problema, come per il commercio mondiale, è che la tentazione del protezionismo fa del male sia a chi la persegue sia a chi la subisce. Quindi nello stabilire le regole del gioco per i dati, merce essenziale per favorire innovazione e interoperabilità, generando esternalità positive ed effetti di rete, le banche non devono lasciarsi tentare dalla volontà di chiudersi e di coltivare il loro “walled garden”. Allo stesso tempo, però, poiché “open data” non significa necessariamente “free data”, le istituzioni tradizionali devono imparare ad attribuire un valore di scambio ai dati pazientemente raccolti negli anni.
Questo è il primo livello delle regole di ingaggio tra banche e fintech, che prelude a ogni forma di futura collaborazione organizzativa o di acquisizione e/o integrazione. Imparare a stabilire le regole economiche per lo scambio dei dati non solo protegge e valorizza il patrimonio nascosto delle banche, ma consente anche alle fintech di avere accesso a condizioni di mercato alla risorsa fondamentale per lo sviluppo delle loro innovazioni: le informazioni sui clienti, sulle transazioni, sulle imprese e sui rischi sono un giacimento prezioso. Non basta che regolamentazione e protocolli standard ne definiscano l’interoperabilità in termini tecnici: serve un mercato economico, reciproco e simmetrico, dei dati digitali. È grazie a questo primo passo in direzione reciproca che banche e fintech cominceranno a conoscersi meglio.