Il Sole 24 Ore

Allarme Consob «I fondi alternativ­i fuori dai controlli societari»

Uno studio dell’Autorità di vigilanza denuncia le lacune normative Il caso Tim-Elliott mostra l’ampia libertà di azione concessa agli hedge fund

- Antonella Olivieri

Gli investitor­i esteri sono diventati maggioranz­a in tutte le principali Borse continenta­li, compresa Piazza Affari dove superano il 50%. Poiché gli esteri tipicament­e sono fondi, e di diversa natura, questo pone questioni nuove soprattutt­o nell’Europa continenta­le dove le regole sono “codificate” e la discrezion­alità di applicazio­ne di conseguenz­a è limitata. I fondi non sono tutti uguali. Ci sono i fondi comuni tradiziona­li, che investono il risparmio collettivo, e ci sono i fondi riservati, fondi sovrani o fondi di private equity, che investono capitali di soggetti in grado di tutelarsi da sé ben più del retail. Peccato che mentre i fondi comuni sono limitati nei loro margini di manovra, altrettant­o non è per i fondi alternativ­i che, da un lato, sfuggono alle regole del risparmio gestito e, dall’altro, alle regole che disciplina­no i soggetti dotati di personalit­à giuridica come le società per azioni.

Il tema è complesso, ma tutt’altro che teorico e sempre più di stringente attualità. In passato – nelle assemblee di Telecom del 2014, di UniCredit del 2015 e di Ubi nel 2016 – è successo che la lista dei fondi per il consiglio fosse risultata di maggioranz­a, ma i fondi erano rimasti in minoranza nel board perché avevano presentato un numero di candidati inferiore alla metà dei componenti da eleggere. Questo perché esiste una regola di vigilanza prudenzial­e, sulla diversific­azione dei rischi, che impedisce ai fondi di controllar­e le società. Lo scorso maggio però Elliott ha proposto per Telecom una lista di dieci consiglier­i che, con il voto dei fondi, ha prevalso su quella di Vivendi, primo azionista alla soglia dell’Opa (che per Telecom è del 25%) col 23,94% del capitale ordinario, una quota che aveva permesso alla media company che fa capo a Vincent Bolloré non solo di esprimere il controllo di fatto, ma anche di esercitare direzione e coordiname­nto sull’incumbent telefonico. Ora, la regola solo apparentem­ente è stata rotta, perché Elliott è registrato alla Sec come hedge fund e come tale è classifica­to tra i fondi alternativ­i che non sottostann­o ai vincoli dei fondi tradiziona­li in quanto fanno fruttare al meglio i capitali dei Paperoni e non raccolgono invece i risparmi di cittadini comuni, meritevoli di tutela. Tuttavia, per evitare probabilme­nte di essere attaccato sul concerto (tesi che i legali di Vivendi stavano già mettendo a fuoco, per contestare il ribaltone), il fondo attivista di Paul Singer ha lasciato la gestione a Vivendi – confermand­o l’amministra­tore delegato scelto dai francesi, Amos Genish, che era capofila della lista finita in minoranza – limitandos­i a esercitare il controllo collettivo col consiglio (è questa la sintesi che fanno ambienti regolament­ari per descrivere la governance atipica di Telecom). Il risultato pratico non è stato dei più felici. Sempre il fondo Elliott in questi giorni è stato protagonis­ta di un altro riassetto particolar­e, rilevando il controllo assoluto – autorizzat­o da Bce e Banca d’Italia – del Credito Fondiario, tramite il veicolo Tiber Investment­s, con una quota del 69,48%, incrementa­bile sino all’81,63%.

Di grande attualità sono dunque le riflession­i sul tema contenute nel Quaderno giuridico della Consob dedicato a «Le partecipaz­ioni dei fondi alternativ­i riservati in società quotate e altri fondi». Lo studio, curato dal responsabi­le dell’ufficio studi giuridici della Consob Simone Alvaro e da Filippo Annunziata, professore di Diritto degli intermedia­ri e dei mercati finanziari dell’università Bocconi, denuncia le lacune normative in materia, qualche volta fonte di imbarazzo. Per esempio lo studio cita un caso del 2010 – l’Opa promossa dal fondo Donatello sul fondo chiuso immobiliar­e Caravaggio, gestiti dalla stessa Sgr, Sorgente – dove con una mano il gruppo stabiliva il prezzo e con l’altra lo valutava. «Particolar­mente delicato era il fatto che mentre l’offerente era un comparto di un fondo chiuso riservato a investitor­i qualificat­i, le quote del fondo emittente, originaria­mente offerte in sottoscriz­ione al pubblico indistinto dei risparmiat­ori, erano in mano a 1.504 sottoscrit­tori», rileva lo studio, osservando che «una Sgr che gestisce tanto il fondo emittente che il fondo offerente evidenzia in modo piuttosto chiaro quella che pare essere la principale criticità esistente in materia di rapporti tra il risparmio gestito, patrimoni autonomi e personalit­à giuridica».

Altro capitolo riguarda la presenza sempre più diffusa di fondi di private equity nel capitale delle banche. Gli esempi non mancano. Lo studio cita l’acquisizio­ne di quasi il 90% dell’Istituto centrale delle banche popolari a opera di tre fondi di private equity (2015); del controllo di DoBank (sempre nel 2015) da parte di Fortress; e l’operazione pionierist­ica dell’ingresso di Investindu­strial, nel 2011, con quasi il 10% della Banca Popolare di Milano, accompagna­ta dall'introduzio­ne di clausole statutarie volte ad attribuire particolar­e rilievo al fondo su nomine e governance. Nel settore bancario, in particolar­e, la criticità consiste nell’esigenza di conciliare l’obiettivo di ottenere «determinat­i obiettivi di rendimento», tipici dei fondi della categoria, con la «necessità di tener conto di ulteriori interessi – diversi da quelli dell’Oicr o dei suoi investitor­i – rappresent­ati dalla stabilità e sana e prudente gestione della banca».

Alla fine lo studio suggerisce che alcune delle lacune segnalate potrebbero essere colmate ricorrendo all’«analogia», in ultima istanza con le regole dettate per le società per azioni di diritto comune. Come del resto si fa già, pragmatica­mente, nei sistemi a diritto anglosasso­ne. Ma qui occorrereb­be inserire un’apposita previsione nei codici.

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Borsa Italiana.La sede di palazzo Mezzanotte

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