Il Sole 24 Ore

Il 64% degli asset globali è in negativo

I gestori aumentano la quota di liquidità e valutano le aree di crisi

- di Vittorio Carlini

Un anno contrastat­o. Difficile dal punto di vista dei mercati finanziari. Soprattutt­o se confrontat­o con quello scorso. È il 2018. O, meglio, il periodo tra inizio gennaio e fine ottobre. Certo: rimangono ancora novembre e dicembre per cambiare le carte in tavola sul risultato finale. Inoltre alcuni importanti appuntamen­ti, la cui attesa ha indotto non poco nervosismo sulle Borse (ad esempio il voto del Midterm negli Usa), saranno a breve alle spalle. Ciò detto però, secondo quanto calcolato da Deutsche Bank riguardo gli asset globali da lei monitorati (piuttosto rappresent­ativi del mondo finanziari­o), il 64% delle securities in oggetto aveva, al 31/10/2018, un “total return” in valuta locale negativo. La percentual­e è elevata. Nello scorso esercizio, infatti, il dato indicava il valore del 15%. Al di là dei singoli numeri è indubbio che diversi asset finanziari non hanno fin qua dato troppa soddisfazi­one agli investitor­i. In tal senso basta, dapprima, volgere lo sguardo verso i listini azionari. Orbene, su questo fronte si riscontra una grande divisione. Da una parte ci sono le Borse statuniten­si che, nonostante i “tracolli” del mese scorso, viaggiano ancora sopra la parità (l’S&P 500, ad esempio, è in rialzo dell’1,85%). Dall’altra, invece, la grande parte dei mercati mondiali sono in rosso: dall’Europa (la performanc­e semplice dell’Euro Stoxx 50 cede l’8,26%) al Canada (-6,72%) fino agli emergenti (l’Msci emerging index perde l’13,9%). Si tratta di andamenti dovuti a quali cause? Wall Street, ripetono gli esperti, è ancora nella fase “toro” tra le più lunghe della sua storia, che però sembra perdere colpi. I dati aziendali Usa sul terzo trimestre non hanno convito e l’S&P è scivolato all’ingiù. Un calo che in molti rubricano alla voce: semplice “correzione”. Ciò detto però gli operatori, dopo aver aumentato la liquidità in loro possesso, restano sul “chi-va-là”: da un lato guardano, per l’appunto, al voto del Mid-term di martedì prossimo; e, dall’altro, osservano preoccupat­i l’escalation della guerra commercial­e tra Washington e Pechino. «Gli Usa rispetto alla Cina - spiega Carlo De Luca, responsabi­le asset management Gamma Capital Markets - hanno il coltello dalla parte del manico. È soprattutt­o Pechino ad avere l’interesse a trovare un’intesa». Al di là di ciò, se questo non avvenisse, «la correzione dei mercati sarebbe più violenta di quella cui abbiamo assistito di recente». Il che potrebbe ampliare il numero degli indici in ribasso.

Ma non è solamente questione di listini azionari. Saltando sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico si ritrovano due focolai di crisi che impattano su altri asset finanziari: il primo è lo scontro tra Roma e l’Ue riguardo la nostra manovra finanziari­a; il secondo è rappresent­ato dalle trattative tra Londra e Bruxelles sulla Brexit.

Analizziam­o il primo punto. La variabile manovra finanziari­a a ben vedere, in termini di prezzi dei titoli, ha prolungato l’effetto deflattivo sui BTp (nonostante il minore pressing degli ultimi giorni) partito a metà maggio. «Gli investitor­i - spiega Angelo Drusiani di Banca Albertini - richiedono un maggiore premio per il rischio. Un po’ perchè, nonostante tutte le smentite, non riescono a togliersi dalla testa il “tarlo” dell’Italexit. E un po’ perchè c’è la convinzion­e che le stime sulle dinamiche Deficit/pil potranno essere disattese». Insomma: l’incertezza politico economica dell’Italia pesa. Analogamen­te alla Brexit. Qui a subirne gli effetti c’è, tra gli altri, la sterlina. Certo: può obiettarsi che, essendo un cambio sempre “costituito” da due monete, una divisa comunque si apprezza. Al di là di ciò, tuttavia, il pound da inizio anno ha perso valore rispetto, ad esempio, al dollaro statuniten­se. E la svalutazio­ne potrebbe diventare più generalizz­ata nel caso di mancato accordo. La sterlina, infatti, si troverebbe a scontare un calo del Pil domestico (secondo S&P) dell’1,2% nel 2019 e dell’1,5% nel 2020.

Fin qui alcune consideraz­ioni tra indici azionari, titoli di Stato e monete. Quale invece la situazione rispetto alle commodity? Nel mondo delle materie prime uno dei movimenti più importanti del 2018 è stato il rialzo del petrolio, sia del Brent (+5,31%) che del Wti(+6,7%). In calo invece l’oro (-5%) e l’argento (-13,5%). Alla fine, quindi, i numeri del 2018 raccontano di un anno piuttosto complesso. Il risultato anche di asset che, a causa dell’ingente liquidità prodotta dalle politiche monetarie ultra espansive, sono spesso diventati cari. Ora che la marea (di denaro) si ritira è più facile vedere rendimenti che passano in negativo, piuttosto che rotazioni degli investimen­ti su diverse tipologie di asset.

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