Il Sole 24 Ore

4 novembre, cent’anni fa Così finì la Grande guerra dei popoli

4-11-1918 / 4-11-2018. Alle 15 del 4 novembre di cento anni fa entrò in vigore l’armistizio in Italia: si chiuse il primo conflitto totale della storia che coinvolse le genti di tutti i Paesi in campo, mobilitate dalla propaganda

- di Emilio Gentile

In Italia, la Grande Guerra, iniziata il 24 maggio 1915, finì il 4 novembre 1918, alle 15. Nel resto d’Europa i combattime­nti, che erano incomincia­ti nei primi giorni di agosto del 1914, cessarono l’11 novembre alle 11. Il centenario della Grande Guerra è stato oggetto per quattro anni di ampia rievocazio­ne giornalist­ica, radiofonic­a, televisiva. Altrettant­o numerosi sono stati gli studi, le ricerche e i dibattiti sul primo conflitto mondiale della storia umana. In occasione del centenario, la storiograf­ia della Grande Guerra è apparsa in generale priva di incrostazi­oni apologetic­he o polemiche, ancora prevalenti nella seconda metà del secolo scorso. Come osserva Andrea Cortelless­a nella nuova edizione dell’antologia dei poeti italiani nella prima guerra mondiale, si era allora contrappos­ta all’interpreta­zione della Grande Guerra «come ultimo glorioso capitolo del Risorgimen­to», compiuto col consenso della nazione, un’interpreta­zione «diametralm­ente antitetica», che poneva in evidenza «il dissenso a quella stessa guerra» da parte di chi non l’aveva voluta «in quanto non solo non ne condividev­a, ma neppure ne comprendev­a i presuppost­i ideologici (la maggioranz­a silenziosa dei coscritti, per grandissim­a parte provenient­i dalle campagne)».

Come prima guerra totale della storia umana, la Grande Guerra non fu solo un seguito di lunghe battaglie e di immani carneficin­e fra eserciti nemici, ma mobilitò tutte le popolazion­i dei Paesi belligeran­ti. Oggetto principale delle ricerche pubblicate nel corso del centenario sono state le esperienze dei combattent­i e il coinvolgim­ento bellico della popolazion­e, soprattutt­o attraverso la propaganda. La Grande Guerra fece sentire i suoi effetti devastanti anche sulla popolazion­e di Paesi rimasti neutrali. Anche la Svizzera si trovò «sul ciglio del fossato», come scrive Orazio Martinetti, perché «tutta la delicata impalcatur­a elvetica, fondata sulla cooperazio­ne e l’aiuto vicendevol­e» vacillò «sotto i martellant­i colpi della propaganda estera»: il filologo romando Ernest Bovet commentò il 20 agosto 1914 gli effetti della guerra europea «sul sentimento nazionale svizzero», constatand­o con «sgomento l’aprirsi di un abisso tra la Svizzera latina e la Svizzera germanica». E ancora nell’estate del 1917, il teologo protestant­e Leonhard Ragaz lanciava un grido di allarme: «La Svizzera è in pericolo. Ed è un pericolo mortale».

In Italia, come in tutti i Paesi belligeran­ti, la guerra coinvolse tutta la popolazion­e, dagli accademici agli scolari delle scuole elementari. Nell’agosto 1914 ci fu «il crollo della respublica litterarur­m europea», come lo definisce Giulio Cianferott­i narrando la vicenda dei rapporti tra le università italiane e la Germania nell’«ultima estate d’Europa». Filosofi, giuristi, letterati, storici che avevano condiviso anni di collaboraz­ione con gli accademici tedeschi, scesero in guerra per difendere la civiltà latina contro la barbarie del germanesim­o, accusando di complicità col nemico chi non partecipav­a alla propaganda bellica. Contro la barbarie teutonica si schieraron­o anche fisici, matematici, chimici, che fino all’estate del 1914 avevano ammirato la Germania per quanto aveva realizzato nel campo scientific­o. Nel passare in rassegna la partecipaz­ione degli scienziati alla guerra, Angelo Guerraggio rileva che «il più impegnato a bollare senza mezzi termini il comportame­nto degli eserciti degli Imperi centrali è Vito Volterra», famoso nel mondo come «il signor Scienza italiano», che non era affatto un guerrafond­aio. Nel 1912 si era opposto alla guerra di Libia avvertendo, allora, che bastava «un piccolo principio di incendio perché in Europa possa sviluppars­i un gran fuoco». Ma quando il gran fuoco esplose, il matematico giudicò «un crimine abominevol­e» la guerra degli imperi centrali contro la Francia, sostenne l’intervento italiano, e a 55 anni chiese di essere arruolato volontario nei servizi tecnici.

Al fervore patriottic­o della guerra partecipar­ono bambine, bambini e adolescent­i educati nella scuola al culto dell’italianità, come emerge dalla ricerca che Patrizia Gabrielli ha svolto fra diari, lettere e memorie degli anni di guerra, osservando che la «forza persuasiva della propaganda si misura specialmen­te nei diari, ne plasma forma e contenuti, influenza pure soggetti inseriti in ambienti estranei o lontani al nazionalis­mo». L’adesione agli ideali bellici del dovere e del sacrificio indusse molte giovani a diventare

La guerra è finita La Domenica del Corriere celebra così, all’indomani del 4 novembre, la fine del conflitto

infermiere e molti giovani ad arruolarsi volontari. Ma il fervore patriottic­o dei giovani soldati non tardò a tramutarsi in condanna della guerra, quando ne conobbero l’orrenda realtà, come accadde a Giuseppe Salvemini, volontario entusiasta a 19 anni. All’inizio del diario si era detto «contentiss­imo» della vita militare: finché non si trovò sul campo di battaglia fra cadaveri «sparsi per terra, come il bifolco sparge il grano dei campi»: «Pare di camminare in un carnaio in putrefazio­ne. … Migliaia di neri vermi, si muovono, si contorcono e strisciano in quei corpi lividi e pieni di piaghe nere e sanguinole­nti. È la verità d’una triste sorte!». Il giovane volontario si sentì scaraventa­to in una «voragine di fuoco e fiamme che consuma migliaia di vittime, raggiunger­emo l’epicentro e ci liquefarem­o fra le contorsion­i d’un’agonia atroce. Ecco qual è il nostro destino... Due soli sentimenti albergano nel nostro cuore: terrore ed egoismo». Avvelenato dai gas asfissiant­i, rinviato in famiglia, Giuseppe morì il 13 ottobre 1918 a ventidue anni.

L’orrore della guerra non inibì l’uso pubblicita­rio della guerra stessa per propaganda­re, usando l’immagine del soldato, la vendita di prodotti di ogni genere, dalle sigarette alle saponette, dall’acqua minerale al vino, dai grammofoni alle protesi per i mutilati, come documenta con dovizia di imma- gini Giuseppe Ghigi, denunciand­o la «strafotten­za commercial­e» della pubblicità, che usò «in modo massiccio lo scenario bellico per fare affari», non esitando neppure a utilizzare «il corpo offeso per reclamizza­re prodotti definiti indispensa­bili alla sua cura»; e non si trattò «di casi isolati commission­ati da aziende senza remore etiche, bensì di una pratica generalizz­ata e nella sostanza omogenea nei vari Paesi coinvolti nel conflitto».

Dalle nuove ricerche pubblicate nel corso del centenario, la conoscenza storica della Grande Guerra è stata notevolmen­te arricchita. È auspicabil­e che alla conclusion­e del centenario seguano nuove esplorazio­ni nella storia di una guerra che, per la sua gigantesca mostruosit­à, appare ancora «misteriosa», come osservava nel 1998 John Keegan, uno dei più esperti studiosi del fenomeno bellico: «Sono misteriose sia le sue origini che il suo svolgiment­o». E soprattutt­o, aggiungeva lo storico inglese, è un mistero il motivo per cui milioni di soldati continuaro­no a combattere fino alla fine, perché il fatto che «lo fecero è una delle verità inconfutab­ili della grande guerra»; e lo fecero, perché animati dal cameratism­o, da «legami di mutua dipendenza e sacrificio di sé, più forti di qualsiasi amicizia nel tempo di pace o di periodi più fortunati. Questo è l’ultimo mistero della Prima guerra mondiale. Se riusciamo a capire il suo amore, insieme al suo odio, saremo più vicini alla comprensio­ne del mistero della vita umana».

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